domenica 4 dicembre 2011

WIF6 / E-ZINE DI IF / DICEMBRE 2011

IN QUESTO NUMERO:

* Editoriale / AUGURI A TUTTI!




WIF: L'EDITORIALE DI DICEMBRE 2011

AUGURI DA IF E WIF!

Dopo quasi un decennio di onorato servizio il blog “Micromegas” va a riposo, non certo per scelta personale, quando per dismissione del servizio Splinder, la piattaforma sulla quale era ospitato. Dispiace lasciare quel blog e perdere, di conseguenza, la testata, non essendo possibile registrarla su altre piattaforme. Richiamava il nome della mia vecchia fanzine degli anni Sessanta e la collana di saggistica breve che dirigo per Solfanelli. La collana resta – vitale com’è, avendo raggiunto e superato i 25 titoli in sei anni – mentre l’omonimo blog ci lascia. Il suo posto sarà preso, da gennaio, proprio da WIF – Worlds of If – che diverrà l’appuntamento on line su cui lasciare commenti, aforismi, informazioni e quant’altro, con una speciale attenzione per la letteratura di genere. WIF diverrà così, non più (e non soltanto) il blog ufficiale della rivista IF, il trimestrale dell’Insolito e del Fantastico, ma anche il mio luogo virtuale in cui incontrare le persone che finora mi hanno seguito su “Micromegas”. Per questo WIF perde la sua scansione mensile e guadagna, dal prossimo mese, una frequenza maggiore, che potrà anche essere quotidiana: dipenderà dalle esigenze e dalle opportunità di comunicare.
Quanto a IF, stiamo lavorando al n. 9, dedicato al tema degli Alieni, previsto per gennaio-febbraio 2012, di cui anticipiamo qui alcuni temi. Con l’occasione ripetiamo l’invito a sottoscrivere l’abbonamento alla rivista cartacea, distribuita solo in abbonamento postale, al prezzo di euro 30,00 per quattro numeri. L’unico modo per tenere viva una delle poche testate italiane dedicate alla critica attorno ai temi del fantastico, della fantascienza, dell’horror e del noir. I lettori avranno notato che dal n. 8, in distribuzione in questi giorni, interamente dedicato al tema del fumetto, la testata di IF è stata registrata presso il tribunale di Chieti ed ha assunto una sua indipendenza anche formale. AUGURI A TUTTI!

ALIENO (ALIAS ALIUD)

di Romolo Runcini

Rispetto a me stesso – che vivo, cammino, parlo – c’è tutto il mondo delle persone, delle cose conosciute, sognate, desiderate o temute – che crescono nell’esplicitazione della zona di lealtà in cui sono immerso.
Alieno è non soltanto il diverso, lo sconosciuto, l’appariscente ma – secondo le convenzioni di abitudine e di esperienza del reale – è anche l’avversario, il “mheios” nascosto nella moltitudine della gente. Alieno, sulla scia dell’esperienza e dei ricordi acquisiti del quotidiano, è anche nemico, l’avversario nascosto nell’ombra, il traditore. Alieno è l’altro essere (persona, cosa) non riconoscibile e dunque non classificabile negli schemi della nostra esperienza quotidiana. L’alieno sta fuori, non dentro di noi.

ALIEN DI ALAN D. FOSTER

di Carlo Bordoni

L’esistenza di esseri viventi di natura extraterrestre ha sem­pre affascinato gli scrittori di fantascienza, fin da quando H. G. Wells scrisse La guerra dei mondi (1898), in cui ipotizzava un’invasione di marziani. Ma nessuno era giunto a rappresen­tare una creatura così spaventosa, così letale, così profon­da­mente credibile come Alien, creato dall’immaginazione di Alan Dean Foster e portato sullo schermo da Ridley Scott nel 1979.
La storia parte da un contesto tradizionale per la fanta­scienza: durante un “normale” viaggio interstellare, l’equi­paggio del Nostromo, un’astronave cargo, viene inaspetta­tamente risvegliato. I sensori hanno captato un segnale ritmico di soccorso e questo non può che significare una cosa: pre­senza di vita intelligente. L’esplorazione rivela la presenza di un’astronave aliena semi­sepolta che trasporta un carico bio­lo­gico. Sembra un’immensa incubatrice, la cui funzione sia quella di portare in salvo il seme di una civiltà morente o mi­nacciata da pericolo di estinzione. L’eccezionale, insperata oc­casione di in­con­trare una civiltà extraterrestre, però, si rivela ben presto una grave minac­cia per l’incolumità dell’equipag­gio e per gli stessi abitanti della Terra.
La particolare caratteristica del mostro, che Carlo Rambaldi ha tradotto per lo schermo con straordinario realismo, sta nella sua sottile capacità di ri­chiamare alla coscienza del let­tore-spettatore alcuni inquietanti motivi o segni distintivi della biologia e della morfologia umana e animale, mescolandoli in un sa­piente contrasto. Partendo dal presupposto (psicologicamente fondato) che non si può aver paura di ciò che non si conosce, l’alieno creato da Foster ha in sé quel tanto che è necessario per suscitare inquietudine e repulsione, a cui si aggiunge la violenza, la minaccia incombente per l’uomo. Le tre fasi della vita biologica di Alien — uovo, feto e adulto — corrispondono ad altret­tanti “segni” all’interno di una terribile contaminazione tra umano e mo­struoso. L’uovo, celato nelle profondità minacciose di un pianeta sconosciuto, rivela le sue potenzialità riproduttive, quasi oscene, all’avvici­narsi dell’uomo. Il feto, partorito dall’addome di uno degli uomini dell’equipaggio, richiama, ad un tempo, la forma di una mano e quella, altrettanto familiare, di un ragno.
Ma è la creatura adulta a dispiegare tutte le possibilità di un orrore dai con­torni inconfondibili dell’ingegneria biomec­canica, con la sua struttura a metà fra un ret­tile e un cyborg. Alien fa paura proprio in virtù di ciò che siamo disposti a ri­co­noscere di umano in lui, come di fronte a una velata mi­naccia di ciò che potrebbe diventare l’uomo in un luogo e in un fu­turo re­moti, senza più alcun legame culturale o comporta­men­tale con l’oggi. 
Come per una sorta di solidarietà biomeccanica, l’an­droide che fa parte del­l’equipaggio del Nostromo all’insa­puta degli altri, che lo credono umano, fa in modo di difendere strenua­mente la “preziosa” esistenza di Alien. È uno dei casi cari ad Asimov, autore delle tre famose leggi della robotica, di mac­chine modificate per esi­genze di servizio. Si scoprirà con rac­capriccio che la sua prima legge è quella di salvaguardare forme di vita aliene incontrate tra le stelle e di con­durle sulla Terra, anche a costo di sacrificare la vita degli esseri umani, al solo fine del progresso scientifico. Ripley, l’unica donna dell’equipaggio, è la sola a riuscire a tener testa al pericolo rappresentato da Alien, ribadendo il messaggio al femminile che tra­spare da tutto il libro, come dal film: la figura materna come garante della continuità e della salvaguardia della specie, che s’inserisce in un contesto di “segni” maternali rassicuranti (il computer di bordo chiamato “Mamma”) o inquietanti (la struttura organica del pianeta di Alien, che richiama i genitali femminili), a seconda del punto di vista dell’osservatore.
Il romanzo di Foster, dopo il film di Ridley Scott, ha go­duto di altre due appendici filmiche, Aliens-Scontro finale (1986) di James Cameron e Alien 3 (1992) di David Fincher, indicative del fascino esercitato dalla creatura bio­meccanica sull’immaginario di massa.

LUCE D'ERAMO L'ALIENA

di Gian Filippo Pizzo

Quest'anno ricorrono dieci anni dalla scomparsa di Luce d'Eramo, e visto che oltretutto il tema si attaglia perfettamente a quello di questo numero di IF, ho pensato di ricordarla riproponendo un articolo che scrissi subito dopo l'Italcon del 1994.
Avevo conosciuto questa Signora dall'aspetto fragile ma dalla personalità forte e decisa all'Italcon del 1986, tenutasi a Montepulciano, una convention che è passata alla storia della fantascienza in Italia per l'attacco livoroso e ingiustificato di Alberto Moravia (presente assieme ad altre personalità del suo entourage: Dario Bellezza, Alain Elkann e, appunto, la D'Eramo) alla fantascienza e specialmente proprio a lei, colpevole di essere scivolata verso la fantascienza con il suo romanzo (peraltro denso e bellissimo) Partiranno, appena pubblicato. Moravia brandiva il suo bastone e sembrava sul punto di volerla addirittura colpire, biascicando improperi, ma lei seppe tenergli testa con fermezza e dignità, rivendicando i valori della sua scelta artistica (e ricordo ancora Vittorio Catani uscire imbestialito dalla sala e rifiutarsi di ritirare il premio assegnatogli, mormorando «qui ci stanno prendendo in giro»). La personalità di Luce d'Eramo mi colpì molto e fui contentissimo di rivederla alle Italcon del 1992 e del 1994, entrambe a Courmayeur: facemmo quasi amicizia e per qualche tempo siamo stati in contatto. Nel 1994 lei presentò una relazione dalla quale ricavò un articolo poi apparso sull'Unità, io invece ne feci una sintesi che pubblicai su "Il Giornale dei Misteri" e le feci avere una copia: conservo ancora la cartolina che mi scrisse dopo averlo ricevuto:  «Grazie dal fondo del cuore per il suo bellissimo "Essere alieni" che ha anche dato volume al mio intervento a Courmayeur, inserendolo articolatamente in un discorso sulla science fiction coi richiami pertinenti (e per me lusinghieri) a diverse opere di questa straordinaria letteratura. Grazie. E' stata proprio una bella sorpresa per me leggere il Suo testo così ricco di spunti».

LO SPETTRO DI VULCANO

di Jean-Pierre Laigle

Sono l’unico abitante di Icaro. Questo asteroide a forma di patata, scoperto il 27 giugno 1949 da un certo Walter Baade, ha un diametro di soli 1.400 metri e viaggia nello spazio, tra l’orbita di Marte e quella di Mercurio, a una velocità media di 28,69 chilometri al secondo. Se siete amanti della precisione, la sua traiettoria ellittica lo porta a girare attorno al Sole, a una distanza compresa tra un minimo di 27.933.000 chilometri e un massimo di 294.590.000 chilometri, in 408 giorni, 19 ore e una manciata di minuti. Nel caso in cui questi dati non vi siano sufficienti, potrete trovare tutto ciò che vi interessa sul sito dell’Istituto della Cromosfera.
Che è poi il mio datore di lavoro, e che mi ha incaricato di sorvegliare l’osservatorio solare, ancorato a una profondità di duecento metri nel corpo dell’asteroide per evitargli di essere scagliato nello spazio al minimo urto  subìto da questo ciottolo spaziale dalla gravità insignificante. Io sono un ingegnere di fisica solare, ma il mio compito si limita a supervisionare le operazioni dirette da RIM, il quale esegue il programma stabilito dal nostro datore di lavoro. L’unico motivo della mia presenza quassù è la diffidenza degli uomini nei confronti delle intelligence artificiali. Tuttavia, se succedesse qualcosa di veramente serio, mi chiedo che cosa sarei in grado di fare!

(à suivre)

SERAFINO PREPOSTO AL CORAGGIO

di Pietro Pancamo

Gli angeli si diplomano al Conservatorio Astronomico perché studiano la musica, che le sfere celesti producono ruotando. Fanno l’analisi armonica degli accordi supremi che, una volta, anche gli uomini eletti (Pitagora, ad esempio) avevano la forza e il diritto di ascoltare.
Gli esami sono molti, però che gran soddisfazione ultimare i corsi e ottenere infine (lode al Signore!) il permesso d’insegnare.
I miei studi sono a buon punto e fra poco l’esame conclusivo mi darà il titolo che sogno tanto: quello di Maestro!
Nel frattempo, grazie alle mie doti vocali, già occupo la carica di tenore-capo nella gerarchia lirica del Conservatorio: sono forse il più bravo, tra gli allievi di “Esercitazione corale”. E poi, dirlo mi riempie di gioia, lavoro come assistente di un angelo cherubino che scende ogni giorno in Terra, posandosi delicato sulla quercia di un bosco dolce e campagnolo, per educare gli uccellini al canto. Li abitua a portare il cinguettio in maschera e a sorreggerlo con il diaframma; non tutti riescono subito, anzi nessuno: perciò hanno bisogno di me, “serafino preposto al coraggio” che deve esortarli a ignorare la delusione.
Mi capita, spesso, di calmare i picchi, tanto irascibili da abbandonarsi a voli isterici e rabbiosi, dopo un acuto sbagliato. Per sfogare il rammarico dell’errore, percuotono il becco addosso agli alberi, facendosi (io credo) un male diavolo!
Allora intervengo: abbraccio con la mano grande il loro corpicino scosso dai nervi, accarezzo piano la testolina invasata di furore e fischietto per loro qualche melodia celeste; così, lentamente, l’ira si placa. L’agitazione, tachicardia dei nervi, torna ad essere tranquillità.

(à suivre)

mercoledì 2 novembre 2011

WIF5 / E-ZINE DI IF / NOVEMBRE 2011


In questo numero:


* Editoriale / UNO SPECIALE SUI FUMETTI
* L'intervista / GIUSEPPE LIPPI, IL SOVRANO DI URANIA
* Walter Catalano / ALTERAZIONI DEL PAESAGGIO
* Renato Pestriniero / AUTOCIDIO COLPOSO
* Arielle Saiber / I DISCHI VOLANTI NON SBARCANO A LUCCA
* Perogatt Forever / OMAGGIO A CARLO PERONI







Per scrivere a IF / Rivista dell'Insolito e del Fantastico:
direzioneif@tiscali.it


L'EDITORIALE DEL N. 8 di IF / FUMETTI


Perché un numero sui fumetti? Perché il fumetto è il territorio ideale del fantastico. Quello che più immediatamente riesce ad esprimere le potenzialità dell’immaginario. Qualche tempo fa, a Venezia, si è tenuto un convegno che aveva per tema proprio il fumetto fantastico e IF ha raccolto la proposta del suo organizzatore, Alessandro Scarsella, docente presso l’Università Cà Foscari, di pubblicarne gli atti, integrandoli con altri interventi a firma dei nostri collaboratori. Ne è sortito un numero monografico assolutamente originale e... insolito, che prende in esame il mondo della letteratura disegnata da molteplici punti di vista. Ma il 26 settembre scorso è venuto a mancare Sergio Bonelli, autore di Tex, editore, sceneggiatore; uno dei Grandi che hanno fatto la storia del fumetto italiano. Nella sua casa editrice sono passati un po’ tutti i simboli dell’immagina- rio: non solo Tex Willer, ma anche Zagor, Nathan Never, Martin Mystére, Ken Parker, Dampyr, Brad Barron,lo splendido Dylan Dog. Alla sua memoria è dedicato questo numero speciale di IF.
La sezione narrativa di IF è arricchito anche da un testo eccezionale: un racconto inedito per l’Italia di Douglas Preston e Lincoln Child, la coppia ben nota per i romanzi d’orrore, come “Il libro dei morti” e “La ruota del buio”. Preston ha reso omaggio a IF, in ricordo degli anni trascorsi a Firenze. Autore, assieme a Mario Spezi, di “Dolci colline di Sangue”, è dovuto rientrare negli States perché coinvolto nelle indagini sul mostro di Firenze. Caso più unico che raro di uno scrittore che viene indagato per il romanzo che ha scritto.
 Intanto IF ha compiuto due anni e se li porta davvero bene, festeggiandoli con la nascita di un supplemento digitale che, in onore del suo lontano progenitore americano, s’intitola WIF, ovvero “Worlds of If”. WIF si trova in rete ed è aggiornato con cadenza mensile. Pubblica anticipazioni, riproposte, notizie e narrativa con l’intento di mantenere uno stretto contatto con i lettori. Il prossimo numero di IF sarà disponibile da gennaio 2012 e dedicato agli alieni: un tema affascinante per il quale si preannunciano autentiche sorprese. Buona lettura!


 ARCHIVIO

GIUSEPPE LIPPI, IL SOVRANO DI URANIA

L'INTERVISTA
Giuseppe Lippi, classe 1953, vuol dire soprattutto “Urania”: siete quasi coetanei, avendo iniziato quest’ultima le pubblicazioni nel 1952…

C’è di più. Lei è dell’ottobre  1952 e io del luglio ’53: nove mesi d’intervallo, come per la nascita di un figlio. Naturalmente, neanche su Saturno si può concepire all’età di nove mesi, un anno al massimo. Ma nel 1990 “Urania” era una trentottenne e, sebbene di fianchi un po’ rilassati, avrebbe potuto partorirmi benissimo.

 Il tuo nome è ormai indelebilmente legato alla storica collana, che ha avuto tra i suoi curatori proprio quel Giorgio Monicelli che ha coniato il termine “fantascienza”. So che non ami parlarne, ma non si può farne a meno, dal momento che hai superato il ventennio di attività e ti appresti a uguagliare, quanto a longevità, il record venticinquennale che apparteneva a Franco Lucentini e a Carlo Fruttero. Vogliamo valutare questa tua bella esperienza con uno sguardo indietro?

Figurati se non amo parlarne… Negli accordi che abbiamo preso dietro le quinte, ho precisato che non mi sarei soffermato soltanto su “Urania”, visto che prima ho fatto gli Oscar  e naturalmente “Robot” con Vittorio Curtoni. Certo, “Urania” è stata il coronamento di quelle esperienze, ciò che mi ha permesso di fare dell’attività fantascientifica il lavoro di una vita e non solo della gioventù. Sai come diceva Luciano Bianciardi: a vent’anni scrivi “un pezzo di colore esotico, una cauta  recensione a venticinque” e a trenta curerai i libri, “evitando di scriverli o di tradurli”. L’intellettuale giovane pensa di essere arrivato, ma è solo l’inizio. Dopo ventun anni, mi sembra che la teoria di volumi messi in fila per la nostra ammiraglia sia un esercito germogliato dai denti del drago. “Urania”, i Classici, “Urania collezione”… per non parlare di “Millemondi”, fantasy e libri rilegati. Una biblioteca composta da sette o ottocento volumi (stima prudenziale), ovvero una quindicina di scaffali in uno studio di dimensioni normali. Parlavo di denti di drago perché, in fondo, ogni uomo si illude di essere un Cadmo, aspetta che prima o poi gli venga chiesto di uccidere il serpentone e costruire la sua città. Per me, più modestamente, si è trattato di prendere per le corna quella creatura proteiforme che è la science fiction e seguire le sorti di una collana con la quale sono nato, come lettore, quando portavo i calzoni corti.

“Urania” è cambiata molto col tuo intervento. Soprattutto per l’introduzione degli italiani. Sono entrati ufficialmente a far parte del parco autori, senza sotterfugi e senza nascondersi dietro pseudonimi anglicizzanti. Come hai fatto?

Una volta che Gianni Montanari ebbe ideato il Premio Urania nel 1988, mi sembrò opportuno realizzare quel progetto, che lui aveva fatto in tempo solo ad enunciare. L’ho portato a termine e ho fatto in modo che diventasse un’istituzione perché sapevo che i tempi erano maturi e non si poteva restare indietro rispetto agli altri editori, ma anche rispetto al “Giallo Mondadori” e a “Segretissimo” che da più tempo pubblicavano autori nazionali. Il passo successivo, nel 1994, è stato di proporre la pubblicazione di scrittori italiani al di fuori del premio: questa circostanza è stata favorita dall’esuberanza del fenomeno Evangelisti, autore che aveva creato un personaggio seriale e che non avremmo potuto contenere nei limiti del premio.

(à suivre...)

ALTERAZIONI DEL PAESAGGIO

di Walter Catalano

Soprattutto la notte il rumore intermittente dei cingoli sull’asfalto risvegliava un sapore acido di lacrime e ferite. I tank di ronda intorno al campo sovrintendevano al riposo, orchestrando il succedersi di sonno e di veglia, così come di giorno arbitravano l’accesso all’acqua e alle strade.
Nabil si riscosse sulla branda fra le lenzuola sudate: gli avevano interrotto un bel sogno. Con mano sicura lanciava una molotov contro il carro armato che gli veniva incontro mitragliando, mentre il carrista appollaiato sulla torretta si immergeva nell’abitacolo cercando di chiudere la botola in tempo. L’ordigno centrava lo spiraglio e rimbalzava all’interno. Uno scoppio e le fiamme erompevano dalle feritoie d’areazione con le urla roche degli arrostiti.
Il rombo del tank si perse nella notte ma Nabil era ormai sveglio. Tornò a pensare agli olivi centenari nell’orto della casa della sua infanzia e a come il bulldozer li aveva sradicati uno dopo l’altro. Non volevano essere strappati via quegli olivi e resistevano con le radici secolari abbarbicate alla terra: dovettero schiantarli a fatica e coprirono con cicatrici di zolle le ferite profonde e nere che sfiguravano il suolo. Lui aveva sette anni ma non pianse. Anche se c’era rimasta solo una spianata di cemento laggiù al posto dell’orto e della casa, il nonno continuava a tornarci spesso prima che arrivassero i coloni. Si sedevano sul cemento, lui e il nonno, e pensavano agli olivi senza dire una parola, per ore. Poi eressero reticolati di filo spinato e sentinelle coi fucili sparavano a chiunque si avvicinasse e molte altre spianate di cemento pavimentarono i nuovi insediamenti. Ma oltre il filo spinato, sotto il cemento e sotto le zolle – nella polvere di alberi, case e uomini cancellati - quelle ferite restavano spalancate in eterno come bocche urlanti.
In lontananza si udì un suono lontano di raffiche, grida, pianti, ancora raffiche. Non era stato un drone: i droni non facevano rumore. Nabil fremette ricordando altre identiche raffiche, pensando a come la pietra, inutile e patetica, era scivolata di mano a suo fratello, a come anche lui era caduto, sradicato come un olivo giovane, al cingolo del tank che gli era passato sopra per cancellarlo a sua volta, per ridurlo a quella stessa poltiglia di alberi, case e uomini, facile da nascondere e dimenticare sotto il cemento e le zolle, oltre il filo spinato.
Si alzò dalla branda, dette un’ultima occhiata al nonno e alla sorella ancora addormentati, poi uscì a cercare delle bottiglie e una tanica di benzina.

(à suivre...)

AUTOCIDIO COLPOSO

di Renato Pestriniero

Quando si trattava di discutere su questioni organizzative, il capo li convocava tutti e cinque. Era successo solo una volta che il capo si era chiuso nel suo ufficio con soltanto uno di loro, e quel giorno nessuno se l’era dimenticato perché Salò era riapparso con la faccia color calce e gli occhi che sembravano non vedere, se n’era andato dritto verso la porta d’uscita lasciando che si chiudesse da sola alle sue spalle, e da quel momento nessuno l’aveva più visto.
Adesso, quella scena era scoppiata nella mente di Sirio nell’istante in cui la Lory gli aveva
detto di accomodarsi. La conferma che la faccenda era veramente grave l’ebbe quando la ragazza chiuse la porta appena lui aveva varcato la soglia con il suo passo un po’ claudicante. Il capo se ne stava seduto dietro la scrivania di noce tutta intagliata a boccoli in quella sua strana posizione, la gamba destra piegata sotto la coscia sinistra e il piede che spuntava fuori in modo così innaturale da sembrare quello di un estraneo nascosto chissà come. Il capo guardò Sirio con l’espressione dei momentacci mentre la Lory si sistemava in piedi al suo fianco come da protocollo.
«Mettiti là.» Disse il capo indicando a Sirio una delle due sedie dall’altra parte della scrivania, poi si alzò sfilando il piede da sotto la coscia, si avvicinò alla parete, premette un pulsante, uno schermo scese dal soffitto. Quindi fece cenno alla Lory di spegnere la luce. Sullo schermo apparve un’immagine. Sirio riconobbe subito la consegna fatta la settimana prima a Civita di Bagnoregio, la Lory l’aveva scattata da uno dei vicoli di quel paese fantasma che portano alla piazza San Donato. L’immagine era incorniciata artisticamente dal buio del vicolo e mostrava, nella zona in luce, la casa sul lato opposto della piazza. Al centro, dinanzi alla gradinata della chiesa, si vedevano in prospettiva le antiche colonne tronche. Accanto alla prima colonna a destra guardando la facciata della chiesa, c’era lui che parlava con una coppia di balordi. Sirio ricordava che la Lory, nella sua solita veste di bionda turista, l’aveva ripreso nel momento in cui aveva consegnato la roba ai due.
Guardò il capo con aria perplessa.
«Be’?» fece il capo indicando lo schermo con il grosso indice stretto dall’anello barocco, «Quel tizio che sta laggiù, chi è? Hai forse deciso di prendere tuo fratello come gorilla?»
Sirio strinse gli occhi. All’altezza dell’ultima colonna a sinistra, quasi sull’angolo della casa di fronte, un uomo stava fotografando quanto rimaneva della chiesa di San Donato. Accanto a lui una donna si guardava intorno. La distanza rendeva le due figure appena distinguibili. «Ma quale gorilla! Se non me lo dai tu, io mica ho la possibilità di pagarmelo.» Il capo attese qualche secondo fissando Sirio, quindi fece passare un’altra immagine. Era un particolare ingrandito della precedente dove i due turisti apparivano più distinguibili, sebbene il volto dell’uomo fosse semicoperto dalla fotocamera.
«Allora,» disse il capo con tono paurosamente piatto, «Chi è quell’uomo?»

(à suivre...)

I DISCHI VOLANTI NON SBARCANO A LUCCA

THE FICTION OF ITALIAN SCIENCE FICTION
di Arielle Saiber

Arielle Saiber, docente di Italiano nel Dipartimento di Romance Languages presso il Bowdoin College dell’Università Brunswick nel Maine (USA), è autrice di un lungo ed esauriente saggio sulla fantascienza italiana redatto per una rivista accademica americana, di cui pubblichiamo qui una ghiotta anticipazione.


Worse, perhaps, than calling Italian science fiction “derivative”—as has often been recited by science fiction readers and critics, Italian and not—is thinking it does not, or could not, exist. Consult a science fiction (hereafter, “SF”) anthology in English, the “it” language of SF, from any period and you will be hard-pressed to find a single author from Italy. The same goes for encyclopedias of SF and companions of critical studies of SF written in English, where French, German, Russian, Polish, Japanese, Chinese, and Latin American authors are, on the other hand, discussed.  
A large number of monographs in English on international SF has been published in the last few decades, including SF from Germany and Austria (The Black Mirror) and Latin America and Spain (Cosmos Latinos), as well as African American SF (Dark Matter), feminist SF (Women of Other Worlds), gay SF (Kindred Spirits), Canadian SF (Northern Stars), Russian and Eastern European SF (Beneath the Red Star), and Jewish SF (Wandering Stars). One can also find translations into English of SF novels and anthologies written in Romanian, Czech, Chinese, Hebrew, Croatian, Serbian, Finnish, Ukrainian, not to mention French, Spanish, Russian, and Japanese. A study dedicated to Italian SF in English, or an anthology of Italian SF, however, has yet to see any light.
Ask a non-Italian to name an Italian SF author, and you will get a blank stare. Ask a non-Italian SF fan to name an Italian SF author and they will laugh, pause, and realize sheepishly they do not know. Similarly, ask an Italian non-SF fan the same question and they may even be proud not to know (or maybe to know only one: Valerio Evangelisti).
And if you dare ask an Italian SF fan, be ready for a long conversation. Some people (Italians and not) may propose the Futurists, or Italo Calvino as possible SF authors, and then retract that offer, realizing that these authors’ future-related or science-related writings do not, for the most part, quite fit the genre, at least not the “generic,” Anglo Saxon one (although this could be debated, I would say the Futurists—Marinetti in particular—have more in common with genre SF than Calvino does). Others might think of Tommaso Landolfi, Dino Buzzati, or Primo Levi—who did write what would be considered superb genre SF—although not be able to name a SF novel or short story authored by them. A few people might have heard of, or even seen, Gabriele Salvatores’ 1997 cyberpunk film Nirvana, or Mario Bava’s classic Terrore nello spazio (1965; based on Renato Pestriniero’s 1960 short story “Una notte di 21 ore,” translated as Planet of the Vampires and inspirational to Ridley Scott’s 1979 film, Alien). Some may have caught an episode of the widely popular A come Andromeda (1972), an Italian adaptation (by Inìsero Cremaschi) of Fred Hoyle and John Elliot’s British show. Some might think of the humorous writing of Stefano Benni in Terra! Others might cite a adventure comic books that included SF episodes, or focused on SF themes, such as Nathan Never. But even the few writers and scholars who have championed Italian SF have often done so with careful, almost apologetic terms. As SF author and critic Vittorio Catani has written, “in principio fu il Verbo: USA” (Catani, 2002).
“In cinquant’anni di fantascienza in Italia n’è apparso un solo scrittore: Valerio
Evangelisti.” While Evangelisti is certainly a superb and prolific writer, this provocative sentence by SF critic and author Domenico Gallo is, of course, not true, although it is seemingly such, given how Italian SF is characterized, at home and abroad. The editors of the 2007 SFWA (Science Fiction Writers of America) European Hall of Fame volume—who include a short story by Evangelisti—note how Italian SF has “rarely been garnered even the begrudging critical acceptance accorded the genre in other European countries,” and has been allocated to the “ghetto of the ghetto” of World SF (Morrow and Morrow, 60).



(à suivre…)


Copyright (C) 2011 by Arielle Saiber
I would like to thank the following invaluable interlocutors for their time, thoughts, and exceedingly generous help in acquiring texts, images, and difficult to find information: Mauro Catoni, editor of SF quadrant; Giuseppe Lippi, author and editor of Mondadori’s “Urania” series; Carlo Bordoni, author and editor of the magazine If; Silvio Sosio, author and editor of Delos Books and Fantascienza.com; Armando Corridore, author and editor of Elara Press; Ermes Bertoni editor of the Catalogo SF, Fantasy e Horror; author Giampietro Stocco; Luigi Petruzzelli, editor of Edizioni Della Vigna; and Luigi Lo Forti, Christian Antonini, and Vito Di Domenico, editors of Altrisogni. Thanks also to Marco Arnaudo, Pierpaolo Antonello, and Lisa Yaszek for their insights, reading, and commenting on early drafts of this study, and to Katharine Verville, fantascientific research assistant extraordinaire.

PEROGATT FOREVER: OMAGGIO A CARLO PERONI

di Carlo Bordoni


Carlo Peroni, classe 1929, in arte Perogatt, è un disegnatore eclettico. Uno di quelli che nascono con la matita in mano, che sanno fare di tutto. Adattarsi ad ogni bisogna, realizzare qualsiasi personaggio venga loro richiesto. Sono i veri, grandi disegnatori di ogni tempo. Perché chi ha il dono del segno (anche se Peroni sostiene che fumettisti si diventa) è in grado di applicarlo ad ogni soggetto, ad ogni stile.
Dalla realizzazione di tavole per Topolino, Tiramolla, fino ai Flintstones (gli Antenati), a quelle insospettabili, coperte da comprensibile riserbo, come il ben noto pulcino Calimero della pubblicità televisiva, alla cui creazione Peroni collaborò quando lavorava allo studio dei fratelli Pagot. Oppure il sodalizio con Jacovitti (particolare inedito), per il quale lavorò all’animazione di Cocco Bill.
Del grande Jack sapeva fare tutto (salami compresi) e avrebbe potuto continuarne le imprese, se avesse voluto. Molte le caratteristiche che li accomunano: oltre ai grossi nasi, il gusto per il nonsense demenziale (si veda “Slurp”, ad esempio) e l’horror vacui: quella specialissima esigenza di riempire ogni spazio vuoto della pagina di particolari, di oggetti desueti, di cose assurde, di personaggi occasionali che non fanno parte della storia, che sono ininfluenti, eppure contribuiscono – con la loro presenza – a dare un senso. A creare un’atmosfera, a far sorridere. A ben guardare sollevano un velo su una realtà straordinaria, sul mondo affollato della fantasia. Una visione d’estrema complessità, propria dell’immaginazione umana, che il segno puntuale, nitido, particolareggiato e intelligente di Peroni, come quello di Jacovitti, ci fa percepire solo in parte. Perché il resto prospera solo dentro il loro cervello e ci è concesso di goderne solo a sprazzi e in piccole frazioni. Per gentile concessione.
 Ma Peroni è un timido, non ama mettersi in mostra. Da anni si è ritirato in quel di Guanzate (fuori dal caos di Milano, dice, ma per andare da lui, bisogna superare un’intricata rete di autostrade e tangenziali) a continuare il suo lavoro di artigiano della matita, coadiuvato dal figlio Paolo.
Sessant’anni di carriera, una miriade di personaggi, creati e allevati come figli, molti dei quali hanno fatto il giro del mondo e sono conosciuti con nomi diversi, come il tedesco Sonny, che corrisponde al nostrano Gianconiglio. Alcuni personaggi resteranno per sempre nella memoria dei bambini che siamo stati: Nerofumo, lo zio Boris, Mondolumaca, Gervasio, Spugna e molti altri: la nostra finestra sul fantastico quando ancora non c’erano la tv e tantomeno il computer.
La lunga sequenza di soddisfazioni è stata interrotta nel 2008, quando si è visto licenziare in tronco da “Il Giornalino”, assieme ad altri suoi colleghi, con l’assurda motivazione che “non sa disegnare”! Non se n’era accorto nessuno, visto che aveva lavorato alla testata delle edizioni Paoline per una vita, avendo iniziato nel lontano 1948. Ma Carlo Peroni non se la prende. A ottantadue anni suonati sarebbe ora di appendere la matita al chiodo, come si dice. Invece non demorde.
Smanetta sul computer come un ragazzino della “digital generation”, inventa storie e cesella tavole a colori con lo stesso entusiasmo di sempre. È evidente che la creatività non fa invecchiare. Auguri, Carlo, di ancora un lungo e divertente lavoro.

lunedì 3 ottobre 2011

WIF4 / E-ZINE DI IF / OTTOBRE 2011


IN QUESTO NUMERO DI WIF:


 
* Editoriale / LA LETTERATURA DISEGNATA





Editoriale WIF4 / OTTOBRE 2011
LA LETTERATURA DISEGNATA

Quarto numero di WIF. L'e-zine di IF - come l'abbiamo chiamata, da "electonic fanzine" (in ricordo dei favolosi anni Sessanta) - sta ottenendo un discreto successo ed è visitata dai lettori soprattutto al momento della sua uscita in rete, ai primi di ogni mese. Questa volta presentiamo in anteprima il promesso thriller di Douglas Preston e Lincoln Child, "Andando a pesca", dove compare per la prima volta da solo, senza l'ineffabile Pendergast, il tenente Vincent D'Agosta. Una storia da non perdere, che sarà pubblicata integralmente sul prossimo numero 8 di IF, dedicato ai fumetti.
Il numero di IF che è in preparazione raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Venezia sul tema della letteratura disegnata, assieme ad altri interventi dei nostri collaboratori, per iniziativa di Alessandro Scarsella, docente presso l'Università Cà Foscari.
Completano il numero l'intervista a Giuseppe Lippi, editor storico di "Urania", racconti di Roberto Barbolini, Piero Giorgi, Bruce McAllister, Fernando Sorrentino. E poi le rassegne, le recensioni, i film, e un omaggio a Carlo Peroni, ottantadue anni portati (bene) con la matita.

In attesa del n. 8 di IF, ecco il suo supplemento digitale. IF e WIF continuano assieme. Buona lettura!

PRESTON & CHILD: ANDANDO A PESCA

Un racconto inedito in Italia di Douglas Preston e Lincoln Child, dove compare per la prima volta da solo il tenente Vincent D'Agosta del NYPD. In esclusiva sul n. 8 di IF, di prossima pubblicazione.



La Ford Taurus sibilò lungo la strada scivolosa, raggiunse la cima della collina ed emerse dai boschi. Un improvviso panorama di fattorie e campi verdi si aprì là sotto, un grappolo di case bianche e un campanile lungo un fiume scuro.
«Il limite di velocità è di 45», disse Woffler, la voce tesa.
«Non fartela addosso.» replicò Perrotta «Sono un guidatore nato.» Lanciò un’occhiata al falegname: la faccia dell’uomo era bianca, e l’ambiguo orecchino che portava all’orecchio sinistro – un anello d’oro con una pietra rossa – tremava quasi per l’agitazione. Woffler e il suo piagnucolare cominciavano a dargli sui nervi.
«Non sono preoccupato per la tua guida», disse Woffler. «Sono preoccupato perché potrebbero fermarci. Hai presente la polizia?» Lui annuì significativo alla borsa di velluto appoggiata sul sedile tra loro.
«Ok, ok.» Perotta rallentò a cinquanta, mentre l’auto scendeva dalla collina verso la città. «Hai bisogno di una pausa vasino, amico?»
«Potrei prendere qualcosa da mangiare. È ora di cena.»
C’era una tavola calda proprio alla periferia della città, in quella che sembrava una stazione di servizio convertita. Sei camioncini pick-up fermi nel parcheggio sterrato.
«Benvenuti a Buttcrack, New Hampshire.» fece Perotta. Scesero dalla macchina e si avvicinarono al locale. Perotta si fermò sulla soglia, osservando la clientela.
«Li crescono belli grossi qui, vero?» disse. «O pensi che si tratti di consanguineità?»
Presero un tavolo vicino alla finestra, da dove potevano tenere d’occhio l’auto. La cameriera si avvicinò ondeggiante. «Cosa posso darvi, gente?» disse, sorridendo.
«Che ne diresti del menu?» disse Perotta.
Il sorriso scomparve. Lei indicò verso il muro «È tutto lì.»
Perotta esaminò il tabellone. «Portami un cheeseburger, patatine fritte e un piatto di cipolle alla griglia. Fallo al sangue. E caffè.»
«Lo stesso per me», disse Woffler. «Tranne che prenderò il mio hamburger ben cotto. E niente cipolle.»
La cameriera si ritirò ancheggiando e Perotta la seguì con lo sguardo. Mentre passava davanti a un tavolo più lontano, vide un uomo con dei tatuaggi e una canotta che lo fissava. Era uno grande e grosso, gonfiato. Qualcosa in lui faceva pensare a Perotta la prigione. Prese in considerazione il sacco di merda squadrandolo dall’alto in basso, poi decise che non era il caso. E neanche il momento. Si voltò di nuovo verso il suo partner.
«L’abbiamo fatto, Woffler. – disse a bassa voce. – Ci ha fatto impazzire.»
«Non abbiamo ancora fatto nulla. – rispose Woffler. – Non parlarne qui. E non chiamarmi per nome.»
«Chi ci sente? Comunque, siamo a centinaia di chilometri da New York – e nessuno si è ancora accorto della sparizione.»
«Non lo sai.»
Erano seduti in silenzio. L’uomo con i tatuaggi si accese una sigaretta e nessuno gli disse di spegnerla. Dopo pochi minuti la cameriera uscì con gli hamburger e li fece scivolare sul tavolo.
Perotta controllò, come faceva sempre. «Avevo detto al sangue. A-L S-A-N-G-U-E. Questo è ben cotto.»
Senza una parola la cameriera riprese il suo piatto e lo riportò in cucina. Perotta si accorse che il tipo con i tatuaggi lo fissava.
Il piatto tornò fuori e Perotta controllò di nuovo. Non ancora abbastanza al sangue. Cominciò a fare dei segnali alla cameriera, ma Woffler lo fermò.
«Vuoi mangiare il tuo hamburger e farla finita?»
«Ma non è al sangue.»
Woffler si sporse in avanti. «Vuoi proprio fare una sceneggiata adesso, in maniera che tutti si ricordino di noi?»
Perotta ci pensò un attimo e decise che Woffler poteva aver ragione. Mangiò l’hamburger in silenzio, bevve il caffè. Aveva fame. Erano stati alla guida da prima dell’alba, fermandosi solo per far benzina e qualche caramella.
Pagarono, e Perrotta non diede la mancia alla cameriera. Era il minimo che poteva fare, per una questione di principio. Cosa c’era di così difficile nel fare un hamburger al sangue?
Quando furono in macchina, l’uomo tatuato emerse dalla tavola calda e si avvicinò. Allungò un braccio attraverso il finestrino aperto di Perotta.
«Che diavolo vuoi?» chiese Perotta.
L’uomo sorrise. Da vicino, Perrotta poteva vedere che il tipo aveva una vecchia cicatrice da tracheotomia a destra, sotto il pomo d’Adamo. I suoi denti erano del colore delle urine.
«Solo augurarvi buon viaggio. E offrirvi un consiglio.» Parlava gentilmente, rotolando uno stuzzicadenti dentro la bocca.
«E quale consiglio sarebbe?»
«Non tornate un’altra volta nella nostra città. Mai.»
«Non c’è problema. Potete tenervi la vostra Shitville, o comunque si voglia chiamare questa discarica.»
Schiacciò il piede sull’acceleratore, filando fuori dal parcheggio e riempiendo l’uomo di polvere e ghiaia. Guardò nello specchietto retrovisore: si stava spazzando via la polvere dalle braccia, ma non sembrava fare una mossa per seguirli.

(à suivre...)


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