giovedì 1 settembre 2011

WIF3 / Settembre 11

In questo numero di WIF:

*Editoriale, IF COMPIE DUE ANNI E LI PORTA BENE
*Fernando Sorrentino, PROBLEMA RISOLTO






 


Editoriale WIF3 / Settembre 2011
IF COMPIE DUE ANNI E LI PORTA BENE 

Torna WIF, il magazine digitale di IF - Insolito e Fantastico, con una scelta di anticipazioni e proposte di narrativa fantastica. Nel frattempo IF ha compiuto due anni, li porta bene e si avvia al suo ottavo numero dedicato al fumetto fantastico, disponibile fin dal prossimo mese. Un’ottima occasione per abbonarsi e contribuire all’indipendenza dell’unica rivista critica del fantastico, che vive del solo apporto dei suoi lettori e collaboratori. Il numero 8 sarà un numero straordinario, con saggi di Alessandro Scarsella, Claudio Gallo, Renato Pestriniero, Davide Giurlando, Manuela Gallina, Luca Berta, Francesco Cesari, Stefano Trovato, Walter Catalano, Giuseppe Panella, Riccardo Gramantieri. Completano questo volume la sezione narrativa, le recensioni e l’intervista a Giuseppe Lippi, curatore di Urania. A proposito di Urania, il settore Mass-market della Mondadori, di cui fa parte anche la storica collezione di fantascienza, ha visto quest’estate un cambiamento ai vertici: Sergio Altieri, dopo anni di proficuo lavoro, cede lo scettro a Franco Forte, scrittore, curatore, traduttore, che ha appena pubblicato, sempre da Mondadori, il suo romanzo storico-fantastico “Roma in fiamme”. A entrambi la direzione di IF, l’editore e il suo staff augurano buon lavoro.

WIF, il supplemento digitale di IF, è gratuito, stampabile in proprio o leggibile come e-book.
IF e WIF continuano assieme. Buona lettura!


Fernando Sorrentino
PROBLEMA RISOLTO1)


Chi non conosce il Gruppo Finanziario Insignia per operazioni creditizie su veicoli, macchinari agricoli, industriali e beni mobili complessi in genere?
Ho lavorato tre anni alla succursale di Parque Patricios ubicata in avenida Caseros. Promuovendomi di categoria, la ditta mi trasferì alla succursale Palermo, in avenida Santa Fe. Siccome abitavo in calle Costa Rica, a solo sei isolati, il cambio mi tornò decisamente a favore.
Benché il regolamento lo vietasse, alcuni venditori o rappresentanti di prodotti vari visitavano ogni tanto l'ufficio. I capi solevano tollerare e permettevano loro di entrare cosicché era già consuetudine che noi impiegati facessimo acquisti da queste persone.
Fu così che conobbi Boitus, un personaggio abbastanza strano. Era magrissimo e semicalvo, portava degli occhiali antiquati ed indossava sempre il medesimo completo grigio logoro e costellato d’indelebili tracce d’antiche macchie il quale gli dava l'aria di uno venuto fuori da qualche film dell'epoca del cinema muto; pronunciava la erre come fosse la di.
Vendeva enciclopedie e dizionari a rate e, per contanti, altri libri meno costosi. Divenni cliente di Boitus visto che la relazione mi tornava assai comoda: io gli chiedevo il tal titolo del tale autore ed alcuni giorni dopo al più tardi Boitus, scrupoloso, tornava con il libro in questione ed al medesimo prezzo che in libreria.
Non tardai molto a rendermi conto che Boitus era stravagante non solo nell'aspetto, ma pure nelle azioni e nel modo di parlare. Faceva uso d'un esclusivo vocabolario tutto suo: per nominare Juan Pérez, presidente della nazione, faceva riferimento all'amministratore Tizio dei Tali; non camminava per la strada ma per la pubblica via; non viaggiava in autobus, metropolitane o treni, bensì nel sistema di pubblico trasporto dei passeggeri. Non diceva mai "Non so": sempre Ignoro.
In un'occasione, a fronte d’un certo dialogo, stentai a credere alle mie orecchie. Dalla mia scrivania, mentre prestavo attenzione a particolari del mio lavoro, udii che Lucy —una delle impiegate con maggiore anzianità di servizio e prossima alla pensione— gli chiese:
—Mi dica, Boitus, non ha mai pensato di sposarsi?
La curiosità m'indusse ad alzare gli occhi e ad osservare Boitus. Questi accennò un sorriso comprensivo e, se si vuole, indulgente:
—Vede, signorina Lucy, la sua domanda ha una spiegazione semplice —fece una pausa d'effetto—. Non posso sposarmi per tre motivi: in primo luogo, non sono nelle condizioni economiche; in secondo luogo, manco di denaro; e, in terzo luogo, non ho soldi.
La risposta di Boitus e lo stupore sulla faccia di Lucy mi produssero un attacco di riso che dissimulai meglio che potei. "Bene", mi dissi, "questo Boitus è un umorista geniale".
Fatto fu che mi abituai alle periodiche visite di Boitus durante le quali, oltre a concretare l'acquisto di libri, di lui mi divertivano eccentricità, paradossi, ragionamenti e spropositi.
Si presentava con una cartella di cuoio marrone, logora al punto da essere grigiastra, in cui custodiva fatture, ricevute, opuscoli di enciclopedie, biglietti da visita…, insomma, diversi fogli a carattere commerciale che genericamente chiamava, e vada uno a saper perché, elementi di giudizio. Oltre la cartella egli recava però sempre con sé cinque o sei colli: pacchetti di cartone ondulato o scatole di cartone rigido con le pubblicazioni che gli erano state richieste.
Arrivò il giorno in cui il direttore della succursale, il signor Gatti —bonaccione e comprensivo—, fu promosso e trasferito alla sede centrale. Chi ne prese il posto, il signor Linares, non era cattiva persona, ma uomo dal barocco linguaggio si, amante di circonlocuzioni e devoto a norme e regolamenti: come assunse l'incarico ripristinò la regola che non veniva osservata, ed allora né Boitus né gli altri venditori poterono varcare le soglie della succursale Palermo del Gruppo Finanziario Insignia.
Fu un problema minimo rapidamente risolto. Io e Boitus ci scambiammo i numeri di telefono cosicché i miei acquisti e le sue vendite continuarono a svolgersi con solo una cosa ora diversa: invece di consegnarmi i libri in ufficio Boitus me li portava a casa.
A un dato momento mi resi conto ch'era già un anno che lavoravo alla succursale Palermo e che, pertanto, era anche un anno che conoscevo Boitus e che, ad intervalli più o meno regolari, acquistavo libri da lui. In nessun momento s’era egli detto "venditore di libri": dicevasi diffusore di cultura.
In effetti il diffusore di cultura, ingombro della sua cadente cartella e dei suoi pacchetti e scatole di cartone, arrivava al mio appartamento, mi consegnava i libri, soleva inanellare una sfilza di sorprendenti sofismi e, dopo una quindicina di minuti, se ne andava.
Ricordo molto bene la sua ultima visita; in essa Boitus aveva sciorinato un monologo particolarmente singolare ed assai lungo per mezzo del quale mi rese edotto in merito ad una assurda tassonomia di sua invenzione. Secondo il suo schema il caffè era una pozione, il tè una infusione ed il mate bollito un intruglio; non lasciai però certo che mi spiegasse i fondamenti d'una tale classificazione.
Strana cosa: i suoi argomenti che m'erano risultati inizialmente piacevoli, ad un tratto m'irritarono, indubbiamente per il viscerale rifiuto che provo per l'irrazionalità e l'errore. E benché io avessi dissimulato il mio fastidio, accolsi con gioia il momento in cui Boitus infine si accomiatò con la sua consunta cartella, le sue scatole ed i suoi pacchetti.
Poiché la porta al pianterreno è chiusa permanentemente a chiave, dovetti accompagnarlo per consentirgli l'uscita dall'edificio. Di ritorno all'appartamento m'accorsi che Boitus aveva dimenticato su una sedia uno dei suoi pacchi.
Era una scatola di cartone, rotonda, alquanto simile a quelle che venivano usate per conservare cappelli da uomo. Due nastri verdi, fuoruscenti dal bordo e ora caduti a fianco, avrebbero dovuto avere la funzione di trasportarla comodamente.
Alzai il coperchio ed all’istante tornai a riporlo. Andai in cucina, scaldai del caffè e mi sedetti a fumare una sigaretta di riflessione finché il mozzicone non giunse al minimo.
Nonostante non avesse ancora potuto giungere a casa propria, chiamai Boitus. La suoneria squillò cinque volte ed entrò in funzione la segreteria telefonica: lasciai un messaggio il cui tono —pur se cortese, perentorio— non lasciava adito a dubbi.
Quella notte Boitus non mi richiamò. Tanto meno il giorno seguente. Tornai a chiamarlo ed a lasciargli messaggi in segreteria per vari giorni ed in orari diversi.
Chiamandolo una settimana dopo squillò non so quante volte ma non risposero né Boitus né la segreteria. "Non sarà connesso", mi dissi.
Alcune ore più tardi dette risposta alle mie chiamate una voce femminile che recitava: "Telecom informa che il numero richiesto non appartiene a nessun cliente abilitato”. Più avanti, al comporre il numero di Boitus seguì un silenzio assoluto, come se già non esistessero più né il suo numero, né il suo apparecchio.
Quando in ufficio commentai l'accaduto, Rossi, la cui scrivania è attigua alla mia, si offrì di venire a casa:
—Sempre che non t'infastidisca —aggiunse.
—Al contrario —dissi—, ti ringrazio per l'aiuto.
Al termine dell'orario di lavoro Rossi —per la prima ed ultima volta— visitò dunque il mio appartamento. Scoperchiando la scatola ebbe un gesto di contrarietà:
—Perbacco —disse—. La questione sembra complicata.
—Ovviamente si: già t’avevo preavvertito.
Rossi perse poi ogni interesse alla scatola e si distrasse guardando attorno. Riuscì in pochi secondi ad innervosirmi. È egli un inquieto e si lanciò a perlustrare tutto l’appartamento e ad esprimere svariate critiche o suggerimenti che non gli avevo sollecitato del tipo, ad esempio, “Qui faresti bene a mettere uno specchio” oppure “Non hai paraspifferi alle porte? Paiono esservi correnti d’aria”.
Si soffermò davanti al portaritratti di Cecilia Capelli, lo tenne in mano alcuni istanti, gli cambiò di posto leggermente e commentò:
—Così questa è la tua fidanzata? Bella ragazza, mi congratulo con te.
Mi dissi che avrebbe potuto risparmiarsi il commento e le congratulazioni: il mio idillio con Cecilia s’era già venuto alquanto deteriorando e più volte avevo provato la tentazione di togliere il ritratto, visto che la sua sola presenza m’arrecava disturbo.
Passò poi ad analizzare la biblioteca ed approfittò per chiedermi in prestito una Storia del calcio argentino. Detesto prestare libri (e parimenti chiederne in prestito), poiché però era stato tanto gentile da venire a casa per aiutarmi, non osai dirgli di no.
Ho asserito Rossi essere un inquieto. Constatai alcuni giorni più tardi che, al pari, amava parlar troppo. Il signor Linares mi convocò in effetti il venerdì nel suo ufficio e, dopo il mio ingresso, chiuse la porta. Al dittafono ordinò:
—Flavia, fino a nuovo avviso non mi passi per favore nessuna chiamata.
Mi fece sedere davanti alla sua scrivania e, con un sorriso che pretendeva essere cordiale ma era teso, mi disse:
—Non è che mi piaccia intromettermi nella vita del prossimo, mio caro Sainz, ma in certo qual modo, essendo lei un giovane di circa ventotto anni, relativamente nuovo nella compagnia, ed essendo io …
“Ora va a cacciarmi nel labirinto della sua prosa impervia”.
—…un uomo con qualche anno in più, con più esperienza di vita, e pure suo direttore, una specie di padre nell’ambito della ditta, no?, ho come una specie di, come potrei dire, di obbligo morale d’aiutarla. Non è così…?
Siccome Linares attendeva una risposta, in breve assentii mosso dal desiderio che cessasse di parlare prima possibile.
—In modo che —continuò—, se lei me lo permette, domani, che è sabato e che abbiamo tempo, farò una capatina a casa sua a vedere cosa possiamo fare…
Non potei esimermi dall’accettare la sua proposta. Quando tornai alla scrivania Rossi evitò il mio sguardo. Qualche minuto dopo, tuttavia, s’avvicinò e mi bisbigliò all’orecchio:
—Non credere che sia stato io a raccontarglielo. Egli lo sapeva già: non è facile tenere nascoste certe cose.
Mi chiesi come sapesse Rossi che Linares lo sapeva.
Il sabato dovetti alzarmi presto poiché non potevo ricevere il signor Linares in un tipico appartamento da scapolo che non veniva pulito da almeno due settimane. Dedicai gran parte della mattina al detestabile compito di far correre l’aspirapolvere sui pavimenti, ripassare i mobili con un panno di flanella, lavare il bagno e la cucina… Alla fine, verso le undici, casa mia era ormai in condizioni presentabili per poter ricevere il signor Linares.
Non arrivò solo, ma accompagnato da Araujo, il commesso dell’ufficio appassionato di giochi d’azzardo e da un signore —a me sconosciuto— in abito completo, cravatta e occhiali.
—Il dottor Venancio —lo presentò il signor Linares— è lo scrivano altresì detto notaio che redigerà l’atto. Quanto ad Araujo —aggiunse assai affabilmente—, non necessita di presentazioni. Chi è che non deve qualche favore ad Araujo, non è vero?
Araujo, vestito con l’uniforme di servizio, sorrise timidamente.
—Araujo è qui solo in veste di testimone, affinché il dottor Venancio possa apporre la sua firma nell’atto.
—Va bene —dissi—. D’accordo.
Il signor Linares aprì la scatola e, col coperchio nella destra, osservò attentamente il contenuto; lo stesso fecero poi il dottor Venancio ed il commesso Araujo.
—Tutto a posto, Araujo? —chiese Linares.
—Si, signore, nessun problema.
Il dottor Venancio dispiegò l’atto sulla tavola da pranzo. Erano tre fogli; firmò a margine dei primi due e quindi in fondo al terzo. Indicò poi ad Araujo che doveva fare lo stesso; questi firmò con una certa lentezza: si vedeva che non era persona avvezza a carte e scritture.
—Io devo firmare? —chiesi.
—Non è necessario —rispose il notaio—, ma neppure è sconveniente. Mi rimetto al suo criterio.
—Firmerò, nel dubbio.
Approfittai per leggere l’atto e constatai che il suo contenuto era rigorosamente aderente al vero. Allora firmai.
—E lei, Linares, desidera firmare?
—No, dottore, non mi pare imprescindibile. Né tanto meno prudente.
Tra qualche parola anodina sullo stato del tempo i miei visitatori s’accomiatarono.
Avevo convenuto di recarmi quella sera al cinema con Cecilia. Verso le sei del pomeriggio però mi chiamò per disdire l’uscita:
—Il problema è mio papà —mi spiegò—. Se problema lo si può chiamare. A me pare che non abbia nulla a che vedere, ma a lui si: ritiene che nell’attuale campagna elettorale la tua situazione possa fargli perdere il municipio.
Ebbi voglia di mandarla al diavolo assieme al suo distinto padre, poveraccio invischiato negli intrighi della politica, ma mi limitai a dirle:
—Va bene, d’accordo.
E pensai: “Meglio così, ne ho già abbastanza”.
Cercai in una guida su Internet il numero telefonico di Boitus e constatai che viveva in calle Fraga, a Chacarita. La domenica, al mattino, mi avviai alla casa in questione; trovai uno steccato in legno ed un cartello che diceva: DEMOLIZIONE TOTALE E NUOVA COSTRUZIONE. APPARTAMENTI DA DUE E TRE AMBIENTI.
Eccezion fatta per qualche circostanza particolare, la mia vita seguitò il suo corso normale.
Non occorse molto tempo perché ottenessi una nuova promozione la quale comportava un vantaggio ed un inconveniente.
Il primo consisteva in un aumento di stipendio assai sostanzioso: passavo in pratica a percepire quasi il doppio di quanto guadagnassi in quel momento (che poco non era). L’inconveniente derivava dal fatto di dover svolgere le mie nuove mansioni nella succursale Béccar, di certo abbastanza lontana dal mio domicilio di calle Costa Rica.
Soppesai i pro ed i contro ed alla fine accettai la promozione rassegnandomi ad effettuare il lungo viaggio tra Palermo e la mia nuova destinazione. L’ideale sarebbe stato comprar casa a Béccar o a San Isidro, ma per mettere assieme il denaro necessario avrei dovuto assolutamente prima vendere l’appartamento di calle Costa Rica.
Acquisii pure, senza cercarla, una certa notorietà e mi resi conto che provarla non era cosa sgradevole. Ricevetti cronisti e fotografi dei quotidiani La Nación e Clarín e delle riviste Caras e Gente; fui sottoposto a reportages e fotografato —ora sorridente, ora serio— accanto alla scatola rotonda. Fui anche invitato in televisione a vari programmi giornalistici cui partecipai con una certa vanità. E non declinai inviti a presenziare a frivoli programmi di chiacchiere e pettegolezzi.
Il “dottor” Ignacio Capelli, ad ogni modo, non riuscì a farsi eleggere sindaco di Tres de Febrero, del che mi rallegrai non poco. Dato ch’ero in urto con Cecilia, qualche giorno più tardi colsi un occasionale pretesto e troncai le relazioni.
D’altra parte, qualcosa d’assai piacevole m’era occorso. All’uscita dall’impiego solevo andare a far merenda in un caffè prossimo alla stazione di Béccar. Alla stessa ora, dopo la fine della giornata scolastica, v’affluivano alcune maestre d’una scuola vicina, ragazze molto simpatiche che ciarlavano ad alta voce e se la ridevano a crepapelle.
Mi sentii attratto da una di loro (già sapevo che il suo nome era Guillermina) e più d’una volta i nostri sguardi —gli occhi suoi erano chiarissimi— s’incrociarono da un tavolo all’altro. Un giorno, all’uscita, finsi l’incontro sul marciapiede e potei intavolare un primo dialogo. Qualche istante dopo l’accompagnai, prima in treno fino a Belgrano, poi a piedi per alcuni isolati fino a casa sua. Aveva venticinque anni, si chiamava Guillermina Grotz e viveva ancora con i genitori.
Fatto sta che non tardai molto a diventare suo fidanzato e, dopo qualche settimana, ad entrare in intime relazioni.
Una certa sera —eravamo a letto, in un hotel— mi disse:
—Non sarebbe più economico invitarmi nel tuo appartamento?
Sorpreso, la guardai negli occhi:
—Non sai forse il problema che ho…?
—Come non lo so: lo sa il mondo intero. Però non credo che la questione sia tanto terribile…
Nel suo sorriso c’era una tale generosità che mi commosse. Sentii una lacrima spuntarmi e la dissimulai.
Il sabato seguente andai con Guillermina ad un cinema di Belgrano. La invitai poi a cena in un ristorante di avenida Cabildo:
—Bene —dissi—, ora andiamo a casa a concludere degnamente la notte.
Entrati nell’appartamento ed accesa la luce Guillermina esclamò:
— Finalmente conosco il misterioso bunker del signor Sainz!
Tuttavia, prima di perlustrare gli altri ambienti, si fermò davanti alla scatola rotonda. Dopo un istante d’esitazione, sollevò il coperchio. L’espressione del suo viso non mutò minimamente, disse però:
—Avevi ragione. Sarà meglio continuare come prima…
Onde indurla a spiegarsi le chiesi:
—Andiamo in camera da letto o te ne vuoi andare?
—Se non t’offendi, preferirei andar via.
—Perché dovrei offendermi? È nel tuo pieno diritto…
Guillermina abitava in Cuba e Mendoza. In strada le presi un taxi e m’accomiatai da lei.
Ma non per sempre, non v’era alcun motivo d’interrompere le relazioni; al contrario: la cosa ci avvicinò ancora di più.
Tre mesi dopo ci sposammo ed andammo a vivere in un minuscolo appartamento che prendemmo in affitto a San Isidro e che finì riempito oltre misura dalla mobilia che Guillermina ed io avevamo preso dalle rispettive precedenti abitazioni. Il mio arredo da pranzo era composto da un tavolo e quattro sedie, ma di queste ne potei portare a San Isidro solo tre.
Sul lavoro sopportai alcune domande, tanto ingenue quanto attendibili, e diversi lievi inconvenienti burocratici che non impedirono il mio continuo esser promosso.
Sotto quest’aspetto direi anzi che non mi posso lamentare. Ogni nuovo successo generava un nuovo avanzamento e la mia carriera continuava a progredire in gerarchia e stipendio.
Un venerdì pomeriggio (il migliore momento della settimana) fui convocato alla sede centrale. Lo stesso amministratore generale mi fece le sue congratulazioni e mi palesò che, senza ombra minima di dubbio, prima che passasse un anno sarei stato nominato direttore della succursale di Mar del Plata:
—Di modo che, stimato Sainz, le conviene predisporre le sue cose per tempo.
Mar del Plata è un magnifico trasferimento che, tuttavia, obbligherà Guillermina a rinunciare al suo incarico di insegnante ed a noi cambiare domicilio. Una volta colà non sarà difficile per mia moglie trovare lavoro in un’altra scuola.
Guillermina ed io siamo diventati taccagni sino all’estremo della più gretta avarizia: desideriamo avere disponibilità sufficienti per poter comprare, a Mar del Plata, un appartamento relativamente spazioso, e credo che riusciremo a farcela. L’unico modo è risparmiare, risparmiare, risparmiare poiché non potremo contare nella somma che ci darebbe l’impossibile vendita della mia ex casa di calle Costa Rica, immobile per il quale —sia detto di passo— ho dato disdetta a tutte le utenze: elettricità, telefono, gas, acqua… Ho pure smesso di pagare le spese di condominio e le imposte municipali.
—T’intenteranno un’azione legale e ti metteranno all’asta l’appartamento — suole commentare Guillermina.
Immancabilmente io replico:
—Non troveranno però chi l’acquista.
—Vero —risponde Guillermina ogni volta — ma non è questo problema nostro.

Traduzione © di Mario De Bartolomeis
Mario De Bartolomeis mario.debartolomeis@tin.it

1)    “Problema resuelto” è uno dei 25 racconti finalisti del XXXIII concorso “Hucha de Oro che si è svolto a Madrid ed è stato incluso nel seguente volume: XXXIII Concurso “Hucha de Oro”: Yardbird, y otros cuentos, Madrid, Funcas / Nostrum, 2006, 306 pag. (pagg. 327-341).

Vincenzo Bosica
MELW

PRIMA DELL’USO
Gentile Consumatore, la ringraziamo per aver acquistato MELW (Multifunction Electric Wife – Moglie Elettrica Multifunzione). MELW è un prodotto della Dynalar Cybernetic®, realizzato negli stabilimenti di Barkan su Marte, attraverso un rivoluzionario sistema biocibernetico con l’utilizzo di materie prime altamente selezionate, per offrire il massimo realismo e confort. Questo articolo è garantito dalle maggiori certificazioni di sicurezza interplanetarie, ed è testato contro gli urti (crash test 0,03), esposizioni termiche (fino a +50° e -50° Celsius), assenza di gravità, radiazioni, ultrasuoni e agenti corrosivi (candeggina, diluenti industriali, acidi, etc.). Tutte le sostanze utilizzate per la fabbricazione del MELF sono antiallergiche, atossiche, ignifughe e impermeabili. Ricordiamo che MELW non è un giocattolo, e pertanto sconsigliamo il suo utilizzo da parte di minorenni. Raccomandiamo di leggere con attenzione tutte le informazioni riportate sul presente manuale d’uso. Grazie

AVVERTENZE
MELW (Multifunction Electric Wife – Moglie Elettrica Multifunzione) è un elettrodomestico biocibernetico con cerebro-disk (intelligenza artificiale) concepito per un utilizzo personale. Sconsigliamo un suo impiego in campo professionale. Per modelli da lavoro vi preghiamo di visitare il nostro sito web o di chiamare il numero verde riportato sull’imballo. La Dynalar Cybernetic® risponde legalmente in caso di avaria totale o malfunzionamento del prodotto. Per tutto il resto, le azioni del MELW ricadono sotto la completa responsabilità del legittimo possessore del certificato di proprietà. In caso di controversie il foro competente è quello di Marte. In base al diritto di recesso, l’articolo può essere restituito al mittente, completo in tutte le sue parti, nell’imballo originale, entro sette giorni dalla data di ricevimento della presente.

COME SI PRESENTA
MELW (Multifunction Electric Wife – Moglie Elettrica Multifunzione) si presenta in forma umanoide femminile anomima, strutturata secondo i canoni estetici planetari correnti, completa in tutte le sue parti. Il rivoluzionario sistema di progettazione biocibernetica sviluppato dalla Dynalar Cybernetic® consente di modificare sostanzialmente l’aspetto esteriore della vostra Moglie Elettrica Multifunzione attraverso la regolazione dei parametri estetici. Tali controlli si trovano sulla nuca dell’Articolo. Regolando tali misure, la vostra MELW assumerà l’aspetto che più vi aggrada. Per maggiori customizzazioni è possibile scaricare (a pagamento) dal nostro sito ufficiale centinaia di modificazioni predefinite, create appositamente dai maggiori Beauty Designer.

Ok, non voleva sapere altro. Terry Gerrard spense l’olo-book del manuale d’uso e si avvicinò al suo nuovo acquisto. Da quando aveva divorziato per la quarta, tristissima volta, non aveva bramato altro che quel prodigio tecnologico. Aveva risparmiato per anni, stringendo la cinghia all’inverosimile, vivendo come un recluso, ma alla fine era riuscito ad acquistare l’oggetto dei suoi sogni. Finalmente avrebbe avuto una moglie perfetta, che non si sarebbe mai lamentata della sua puzza di piedi o delle briciole di patatine che spargeva per tutto il soggiorno quando vedeva le partite della sua squadra del cuore e che non l’avrebbe mai annoiato con le sue futili chiacchiere sui vicini impiccioni, sui parenti canaglie o sulle amiche invidiose. Finalmente una moglie che non avrebbe mai avuto mal di testa quando lui sentiva il testosterone schizzargli in orbita, che avrebbe cucinato tutto ciò che voleva senza mai tartassarlo perfidamente sul suo tasso colesterolico o il diabete o i suoi chili di troppo.
Terry accarezzò con piacere quasi reverenziale la pelle della sua Moglie Elettrica. Era soda e liscia, perfetta, leggermente tiepida (sapeva che la Dynalar aveva inserito dei microfasci di fibre termiche sottopelle per dare una perfetta sensazione di realtà al tatto) e odorosa di pulito, non di plastica come invece aveva temuto prima dell’acquisto. La osservò attentamente: adesso appariva come un manichino molto ben fatto, senza giunture visibili, e il viso era una maschera senza espressione, ma a breve avrebbe incarnato i suoi sogni proibiti! Terry si mise alle spalle della MELW e sollevò delicatamente la lunga ciocca di capelli castani che le ricadevano ordinatamente sulle spalle. Individuò senza problemi lo sportellino sulla nuca (perfettamente mimetizzato) e lo fece scivolare lateralmente, scoprendo il pannello di controllo dei parametri estetici.
<< Bene, diamoci da fare!>> esclamò ad alta voce mentre studiava attentamente tutti i regolatori disponibili.
<< mmm… vediamo un po’… per prima cosa scegliamo i tratti razziali…>> e sistemò il comando su bianco caucasico.
<< Poi, vediamo… capelli?... Biondo cenere, si mi sembra un’ottima scelta! E poi… lisci, si lisci. Occhi?... Azzurri, senza dubbio, misure… mmm… ma si, esageriamo pure!...>> e digitò le sue preferenze.
Terry trascorse oltre un’ora a settare e poi modificare i parametri estetici, man mano che pensava a questa o quella attrice. Prima la voleva bionda e prosperosa poi mora con la carnagione scura; ora castana dagli occhi verdi e subito dopo orientale e minuta, e così via, finché non si decise di strutturare la sua Moglie Elettrica facendola somigliare ad una sua ex compagna di università, con la quale aveva più volte provato a flirtare ma era stato sempre, duramente, respinto.
<< Ahah! Adesso vediamo se fai tanto la preziosa, mia cara!>> gridò con un sorriso lascivo, e premette il tasto Salva le impostazioni desiderate.
Immediatamente la MELW iniziò a modificare la sua struttura corporea e facciale. Le iridi diventarono di un verde smeraldo, i capelli si ondularono e assunsero un energico color mogano, la pelle si schiarì fin quasi a divenire lattea, cosparsa di efelidi. Terry osservava rapito tutta la trasformazione. Vide le labbra della sua Moglie Elettrica Multifunzione, dapprima delicate e appena accennate, gonfiarsi e imporporarsi, come aveva scelto, il seno crescere assumendo proporzioni perfette, i glutei arrotondarsi ed alzarsi, la caviglia affinarsi, il ventre appiattirsi.
<<Perfetta!, Perfetta!>> esultò Terry, <<tale e quale a Paola! Anzi meglio!>> disse ricordando la sua ex compagna di studi italoamericana.
Finite tutte le modificazioni, la moglie elettrica rimase immobile come una statua.
Pensando di aver omesso qualche importante passaggio, Terry riaccese infastidito l’olo-book del manuale d’uso, leggendo ad alta voce:
<<Titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio… no, Produttore e controllore finale… no, metodo d’uso… no, precauzioni per l’uso… no, garanzia… no, leggere attentamente… no, ah, ecco qui, come usare la MELW, paragrafo…>>

ATTIVAZIONE
Il seguente modello MELW è dotato di cerebro-disk con personalità pre-programmate. Per attivare la vostra Moglie Elettrica scegliere per prima cosa la sua individualità. Per settare tale parametro premere a fondo (fino a sentire un secco click) uno dei 32 denti del modello. Una volta scelto, attivare la MELW schiacciando il pulsante ON/OFF posizionato all’interno della cavità boccale, sotto la lingua. È possibile scegliere personalità composte pigiando una combinazione di denti, così da avere una carattere unico che si adatti perfettamente alle vostre esigenze. Ricordiamo che in seguito sarà sempre possibile modificare tale tratto semplicemente disattivando il prodotto (premendo nuovamente il pulsante ON/OFF) e ripetendo la procedura dall’inizio. Di seguito riportiamo la lista delle diverse personalità pre-programmate, con le relative combinazioni di tasti/denti da effettuare. Raccomandiamo assolutamente di non…

Terry spense nuovamente l’olo-book, nauseato da tutto quel torrente di parole. Non capiva perché le grosse aziende sentivano il bisogno di scrivere un manuale d’uso enciclopedico se poi le informazioni veramente utili non superavano un paio di righe. Si avvicinò nuovamente alla sua Moglie Elettrica e le aprì dolcemente la bocca, svelando una fila di denti bianchissimi e perfetti, come gemme poggiate ordinatamente su un drappo di velluto vermiglio, e una lingua rosea, delicata, dalle proporzioni perfette. Ovviamente Terry aveva volutamente evitato di leggere la lista delle personalità; d’altronde che piacere avrebbe mai potuto ricavare nel sapere esattamente come si sarebbe comportata la sua nuova consorte multifunzione? Senza un minimo di mistero, senza una briciola di pathos, la MELW sarebbe apparsa per quello che era realmente: un costosissimo, semplice giocattolo per adulti. In questa maniera, invece, poteva pregustarsi tutta la trepidante attesa di un incontro al buio, fantasticando sulle loro prime parole, i giochi di sguardi, i sorrisi complici.
Senza esitare ulteriormente Terry spinse a fondo uno dei denti della sua Moglie Elettrica e poi premette il pulsante di accensione. Un’ondata di energia scosse il corpo della MELW e subito il petto iniziò a sollevarsi e abbassarsi come se stesse respirando, le palpebre si mossero, le dita affusolate si flessero, le labbra s’incurvarono in un sorriso innocente.
<<Buongiorno Signore, posso fare qualcosa per Lei?>> chiese la Moglie Elettrica con disponibilità.
<<Ciao, il tuo nome è Paola, ed io sono Terry, e non Signore, ok?>>
<<Certamente Signor Terry, è un piacere fare la sua conoscenza. Il mio nome è Paola, e sono pronta a servirla in tutti i suoi desideri.>> replicò la MELW con un lieve inchino.
<<Mmm… troppo condiscendente per i miei gusti, non ci siamo proprio. Apri bene la bocca Paola.>>
Terry si avvicinò nuovamente al suo prezioso articolo e pigiò il pulsante off. Poi scelse a caso un altro dente e riavviò il tutto. Una nuova scarica di energia avvolse la MELW.
<<Buongiorno Terry, sono Paola. È un tale piacere vederti! Che il Signore possa illuminare la nostra vita!>> Esclamò la Moglie Elettrica con occhi che sfolgoravano di fervore religioso.
<<Va bene, va bene, basta così… apri bene la bocca per favore.>>
Ma com’era venuto in testa alla Dynalar Cybernetic® di inserire una personalità di questo stampo? Roba da pazzi! - pensò Terry mentre trafficava sui denti del suo acquisto. Però l’intelligenza artificiale funzionava alla grande: la MELW manteneva comunque in memoria tutte le informazioni acquisite dalle sue precedenti versioni, così da non dover ripartire ogni volta da capo.
<<Ciao Terry! Ti va di giocare?>>
<<Si, come no, giochiamo al dottore. Adesso apri la bocca, fai AAAAHHHHH…>> e la disattivò ancora.
Forse sarebbe meglio dare un’occhiata alla lista delle personalità sul manuale d’uso - rimuginò Terry - altrimenti passa un secolo prima di trovare qualcosa di decente. Tuttavia, spinto dall’ultimo slancio di entusiasmo, decise comunque di fare l’ultimo tentativo affidandosi alla sorte prima di ripiegare sul manuale. Stavolta decise di premere più denti contemporaneamente, così da creare una personalità ricca, con varie sfumature, come quella di una vera donna. Riavviò nuovamente la Moglie Elettrica e attese. Stavolta l’onda di energia durò molto più a lungo, segno pratico che i dati immessi erano parecchio più complessi.
<<Hai finito di fingere di essere un Dentista? Mi stai irritando il palato a forza di infilarmi le tue mani sozze in bocca!>> Schiamazzò Paola con palese disgusto.
Sorpreso dalla veemenza delle parole della MELW, Terry non seppe cosa rispondere, limitandosi a starsene impalato come un manichino.
<<Allora? Invece di guardarmi con quella faccia da ebete, potresti anche iniziare col pulire questo porcile di casa! E poi ti sei visto come sei conciato? Ti pare il modo di stare in casa?>>
<<D’accordo, d’accordo,>> ripeté arrendevolmente Terry, <<adesso apri bene la bo...>>
<<Prova di nuovo a ficcarmi le tue luride mani in bocca e giuro che te le stacco!>>
<<Oh, merda!>>
Terry prese immediatamente l’olo-book del manuale d’uso. La situazione stava decisamente volgendo sul surreale. Scorse velocemente i vari paragrafi, alla ricerca di qualcosa che spiegasse come disattivare forzatamente l’articolo. Nel frattempo sentiva la Moglie Elettrica sbraitare furibonda dietro di lui. Stavolta avrebbe letto tutto quanto con calma, al diavolo il mistero, il pathos, il flirt… non aveva speso una vagonata di soldi per ritrovarsi un Moglie peggiore di tutte e quattro le sue precedenti messe insieme. Colto dal panico, Terry non si accorse che Paola aveva finalmente smesso di urlargli dietro, né che stava tornando alla carica con una mazza da baseball.
<<Vogliamo passare alle maniere dure, ammasso di ferraglia?>>
Terry si voltò alzando le mani in segno di totale sottomissione, gli occhi sbarrati dalla paura, la bocca aperta. Sentì qualcosa di caldo infilarsi nella sua bocca e palpargli la sotto la lingua. Poi tutto quanto svanì e comprese che stava per essere disattivato.

Francesco Troccoli
TEMPUS FUGIT


Quel mattino, Marco faticò più del solito a svegliarsi.
Per qualche istante aveva pensato che quel trillo prolungato e pungente che sentiva fosse l’epilogo di un brutto sogno.
Poi invece si era reso conto che non aveva sognato affatto; a pensarci bene, sembrò che la notte fosse passata in un baleno, e nelle notti brevi, si sa, non c’è alcun posto per i sogni.
Si alzò e si gettò sotto la doccia fredda. Si vestì, poi fece colazione davanti alla finestra che dava sul Tevere.
Quella domenica d’inverno Roma era più bella che mai; mentre l’alba lambiva la città ancora addormentata, il ragazzo si preparò per uscire.
La giornata si preannunciava eccitante: la bella ragazza di Bucarest che aveva conosciuto a Villa Borghese il pomeriggio precedente gli aveva dato appuntamento davanti al suo albergo.
La sera prima, dopo la cena a Trastevere, quando si erano salutati, lui non aveva avuto il coraggio di farsi avanti per accompagnarla all’hotel.
Era un disastro con le belle donne, ma per fortuna le belle donne gli davano sempre una mano; quando era rientrato si era ritrovato in tasca un biglietto, scritto in stampatello con dolce ironia:

Evita questa donna: Tanya, Hotel Antico Impero, Piazza dell’Amore, ore 11.00.

Uscì di corsa, felice di recarsi da lei e poterla vedere di nuovo.
Alla sera, rincasò esausto.
Che giornata splendida. E quanto era bella Tanya! I suoi baci erano soffi di vento liquido e caldo sulle labbra, i fianchi stretti e morbidi sembravano fatti per le sue mani, i grandi occhi verdi gli toglievano il respiro.
Avevano fatto l’amore tutto il giorno.
Prima di addormentarsi, il ragazzo provò la sensazione che quella giornata si fosse svolta troppo in fretta. Come un film mandato avanti a velocità più alta del normale.
Quando stai bene, pensò, il tempo ti sfugge via.
Che peccato, con quella donna lui ci avrebbe passato giorni e giorni, possibilmente in un letto.
Il giorno dopo, di mattino presto, andò a cercarla, ma lei era partita. In albergo, stranamente, nessuno si ricordava di quella bella ragazza che il giorno prima occupava la stanza 777. Eppure non era di certo una che passava inosservata.
Ieri alla reception c’era un altro, pensò.
-Ho preso servizio stamattina, signore- aveva detto il nuovo addetto per giustificarsi.
Per un attimo Marco ebbe un brivido. Aveva sognato tutto? O, peggio, se lo era immaginato?
Ma no! Il ricordo di lei era reale, nitido, intenso, caldo.
Se la sentiva ancora addosso, quella pelle ambrata, eppure… era già passato un giorno, anzi, due.
O forse… tre?
Marco si ritrovò a cena con gli amici, mercoledì sera, in pizzeria. Era stordito, confuso. Pensava ancora a Tanya: perché se n’era andata in quel modo? Non lo aveva nemmeno avvisato.
Che giorno è oggi?, dovette chiedersi al mattino seguente, sempre più disorientato. Per stabilirlo ci volle del tempo: era già venerdì; ma della settimana successiva.
Erano passati undici giorni? No, non era possibile. Cercava di ricordare cosa avesse fatto per tutto quel tempo; c’erano delle tracce nella sua memoria, ma sbiadite e frammentarie.
Qualche ora in ufficio, una partita di calcetto, la visita in ospedale a sua sorella… pochi ricordi per riempire tutto quel tempo. Diamine, erano passati undici giorni! Cos’altro aveva fatto in undici giorni?
Le mie giornate si somigliano un po’ tutte, pensò, depresso e sconsolato.
Quella notte il caldo eccessivo lo svegliò; strana temperatura per essere febbraio, rifletté nella semi-incoscienza. Ne approfittò per alzarsi e andare in bagno.
Il mattino seguente, facendo colazione accese la TV per guardare il telegiornale; continuava a fare un gran caldo.
Lo speaker gli diede il buongiorno ed annunciò che era il sedici maggio.
Si alzò di scatto, gli occhi sbarrati, i brividi lungo la schiena, le mani tremanti, la voce strozzata in gola nel tentativo di gridare.
Ne era certo, era andato a dormire in una fredda sera d’inverno; aveva quasi perso il conto, ma doveva essere il 12 febbraio!
Che diavolo stava succedendo?
Chiamò il suo amico più caro, Andrea, e senza dare troppe spiegazioni gli chiese il numero di telefono del suo psicoterapeuta.
Dall’inizio alla fine della telefonata con l’amico si era già fatta notte.
Arrivò allo studio dello psichiatra ad agosto inoltrato, e quando ne venne fuori le foglie iniziavano a cadere dagli alberi; l’asfalto era arso dal sole al suo ingresso, ed era coperto di foglie gialle all’uscita.
Stava impazzendo? Delirava? Lo psichiatra aveva fatto delle strambe ipotesi, tutte poco piacevoli, e alla fine gli aveva dato delle gocce per la notte e un nuovo appuntamento per l’indomani.
Lui cercò di rispettare quell’impegno, ma tornò dal terapeuta che faceva già molto freddo; per strada gli alberi straripavano di palline colorate e festoni natalizi. E, quel che era peggio, lo psichiatra cercò di convincerlo che erano al quarto mese di terapia, ormai, e che i progressi erano stati ben pochi, per non dire… zero.
Questo lo vedo da me, pensò Marco.
Comprò un regalo per Tanya. Da qualche parte doveva avere il suo indirizzo, glielo avrebbe spedito in Romania.
Pochi giorni dopo, arrivò una lettera della ragazza. Lei lo ringraziava, si ricordava bene di lui, anche se era passato tanto tempo, e gli diceva che il fatto di aver ricevuto a Pasqua il suo regalo di Natale l’aveva divertita; forse di quel ritardo doveva incolpare le poste italiane o magari quelle del suo paese.
Marco aveva amato Tanya solo pochi giorni prima, ma era già passato più di un anno.
Non sapeva più cosa pensare.
Certe volte si alzava con la barba lunga, altre con un taglio diverso di capelli, spesso si ritrovava in luoghi o città dove non rammentava di essere mai arrivato; scoprì in ritardo che suo fratello era emigrato negli Stati Uniti, e mancò al secondo matrimonio di sua madre con quello che seppe esser diventato il suo amato patrigno.
Non c’erano molte alternative: o era pazzo, o l’intero universo stava prendendosi gioco di lui.
Dovette scegliere la prima opzione, ipotizzando che aver formulato la seconda fosse prova lampante di follia in fase già avanzata.
Si ritrovò quindi ricoverato in un centro di igiene mentale, nel maggio di tre anni dopo, e lì apprese che in realtà vi era entrato da molto tempo. Ma dopo due giorni era già luglio dell’anno successivo, ed era stato dimesso, e chissà da quanto.
I successivi trenta giorni furono un totale inferno.
Il tempo continuava ad accelerare sotto il suo sguardo impotente. Le sue mani invecchiavano, i suoi abiti cambiavano, tutto si muoveva ad una velocità impossibile.
Aveva ormai venticinque anni in più di quando aveva conosciuto Tanya.
Un giorno la donna, ormai matura e sempre affascinante, venne a trovarlo per una settimana, e fu l’unico momento felice per Marco, anche se durò pochi minuti, forse un’ora, per quel che lui fu in grado di ricordare.
Era prossimo ad esplodere.
Gli anni passavano travestiti da giorni, e la scienza progrediva; ormai vecchio, aprì l’elenco telefonico e si imbatté in un annuncio che attirò la sua attenzione:

Dottor Andreas Kronos Zeit
Riparazione Falle Temporali
Interventi urgenti a domicilio

Il campanello di casa suonò appena ebbe chiuso il librone, ma in realtà erano passate sei ore.
Un omino basso, calvo e con il naso all’insù lo guardò sull’uscio con pupille puntiformi perse in fondo a spesse lenti d’occhiali da miope.
-Mmmm. Lei deve essere quello che mi ha chiamato- disse, dando prova di eccellente intuito.
Entrò e poggiò in terra una pesante valigetta.
Spiegò che le forti emozioni possono causare l’improvvisa apertura di falle nel flusso del tempo. Nel suo caso doveva essere stata la travolgente avventura con Tanya, in gioventù.
-E’ come se lei stesse seguendo una linea retta che taglia tutte le curve della sua vita; lei vive solo i punti di intersezione, ma perde tutti i segmenti intermedi.
Era stato chiarissimo; andando avanti così, avrebbe continuato quella caduta libera nel mare del tempo, precipitando in pochi giorni verso la fine della sua vita.
Marco implorò di essere aiutato.
Il dottore spiegò che con i suoi strumenti poteva procedere in due modi: uno più semplice, l’altro più complicato.
Il metodo semplice consisteva nel ripristinare il flusso normale del tempo, e così la vita avrebbe ripreso la sua velocità fisiologica, ma solo da quel momento in poi. In tal caso tutto il passato sarebbe stato perso per sempre, ma l’efficacia dell’intervento era garantita.
Oppure, nel modo più complicato, il dottore poteva riportarlo indietro, nel passato, fino al tempo precedente l’incontro con la donna che aveva cambiato la sua vita. In questo caso tutto poteva riaggiustarsi, ma era fondamentale che lui evitasse a tutti i costi di fare l’amore con lei.
Non fu facile prendere quella decisione; Tanya aveva rappresentato la parte migliore della sua vita, ma Marco desiderava troppo riappropriarsi della sua giovinezza, ed optò per la seconda via.
Il dottore prese nota di tutto quel che Marco riuscì a ricordare della sua avventura di gioventù: il nome della donna, l’albergo in cui si erano visti, il giorno, l’ora.
Poi gli diede appuntamento.
-Ci vediamo fra un anno nel mio studio- gli disse.
-Come dice?!- gridò Marco in risposta, preoccupato sulle prime dall’idea di una lunga attesa.
-Non si preoccupi, per lei saranno sei o sette minuti, alla sua velocità.
-Ah, già. D’accordo. Grazie, dottore.
L’anno dopo, tutto era pronto; Marco si stese sul lettino, chiuse gli occhi e iniziò a sperare. Poiché una volta tornato indietro avrebbe perso il ricordo di tutto, lasciò che il dottore gli mettesse in tasca un provvidenziale bigliettino:

Evita questa donna: Tanya, Hotel Antico Impero, Piazza dell’Amore, ore 11.00.
Susanna Daniele
LA NEVE

L’atrio della stazione Santa Maria Novella è un enorme corridoio di transito. Non è più pomeriggio e non è ancora sera, comunque è buio da ore.
I tabelloni elettronici di arrivi e partenze registrano ritardi su ritardi, nell’ordine di ore. Una voce femminile all’altoparlante si affanna a darne notizia senza spiegare il motivo. Sembra che la circolazione verso il nord sia bloccata all’altezza di Milano, ma anche i treni della linea tirrenica sembrano seguire una loro particolare e imperscrutabile concezione del tempo. Con le frecce rosse degli euro star naufraga la sensazione di continuità del flusso della vita.
Una fila di senza tetto si è appena sistemata sotto le tettoie esterne e interne. Su ogni cartone una serie di coperture composte da vari materiali nasconde un essere che cerca nel sonno almeno un po’ di calore. Da lontano somigliano a enormi carapaci.
Fra i corpi raggomitolati odori di sonno e rumori di respiri che si rispondono.
Nella piccola sala d’aspetto, che chiuderà a mezzanotte, c’è molto caldo. Si accalcano i viaggiatori in partenza, appena si libera un posto, subito viene occupato, anche da un bagaglio. Uno  vicino all’altra, giovani coppie di giapponesi sonnecchiano con le mani intrecciate, alla ricerca di un’intimità troppo timida per essere manifestata in pubblico.
Un uomo dorme con la testa all’indietro, russando forte. Ha l’odore di chi è in viaggio da giorni. 
Una ragazza è vestita completamente di nero a più strati di abiti sovrapposti, forse più che per ripararsi dal freddo per osservare i dettami della moda. Ha una valigia rigida rosso lacca che contrasta con il rigore funereo della sua faccia. Parla continuamente al cellulare per informare tutta la tribù dei suoi amici della tragedia che si sta abbattendo su di lei: perderà l’aereo per Londra. Tutti i presenti sono obbligati a vivere in diretta il suo dramma.
Si avvicina  alla porta una ragazza nera. Cerca qualcuno. Lancia all’interno uno sguardo sfuggente e se ne va.

La donna della valigia
In fondo alla saletta, nella parte chiusa dal vetro, una donna di età indefinibile, è imbacuccata in un grande cappotto sotto al quale si intuisce il seno pesante e i fianchi pieni. E’ bionda, di quei biondi che tendono al rossastro, il viso largo. Accanto a sé una valigia di un tipo ormai scomparso tanto è fuori moda.
Marrone con gli angoli ben squadrati, le chiusure a incastro e molte vecchie etichette attaccate qua e là. La donna la tiene vicina, quasi sopra al piede destro. La controlla continuamente.
La porta della sala d’attesa si apre di scatto portando dentro una ventata d’aria fredda. Una donna giovane e magrissima entra trascinandosi dietro due trolley che sembrano sproporzionati  per la sua gracilità. Si muove a scatti come se avesse le ginocchia rigide. Lo sguardo inquieto si posa qua e là, come a scegliere il posto dove sedersi. Non c’è scelta e si deve decidere per un posto sul fondo della saletta, vicino a altre due donne, quella con la valigia antiquata e la ragazza in partenza per Londra.

La donna del libro
Sistema i bagagli, poi si alza due volte, consulta il monitor con i treni in partenza e si rimette sconsolata a sedere.
Il termometro della farmacia nell’atrio della stazione segna +1°.
Un ragazzo entra e dice a voce alta “Sta nevicando!” eccitato dalla novità. Improvvisamente quella massa di persone semiaddormentate si risveglia all’unisono. Gli italiani escono in blocco trascinandosi dietro i bagagli, fanno qualche passo verso l’uscita della stazione e ritornano dentro.
I tedeschi si alzano rumorosamente, senza capire bene cosa stia succedendo. Fuori della sala d’aspetto i suoni si sono fatti ovattati.
La donna magrissima non è uscita; ha appena alzato la testa dal libro che sta leggendo. Sembra infastidita da quel diversivo che ha provocato scompiglio. Con una mano tiene un libro, con l’altra il cellulare. Non telefona, ma sembra aspettare una chiamata o un sms. Lascia cadere a terra il libro. La signora della valigia lo raccoglie e glielo porge.
“Oh, La musique d’une vie” legge traducendo il titolo direttamente in francese. Non sapevo che fosse stato pubblicato in Italia. Le piace?”
“Ma, non so, ne ho letto ancora poco” balbetta per lo stupore di quella domanda. “Makine racconta una notte in una stazione degli Urali paralizzata da una tormenta di neve, piena di passeggeri in attesa di un treno verso l’Europa.”

La donna del libro

Non l’avevo notata, avevo altro a cui pensare. La donna, con quella strana valigia, sembrava venire fuori direttamente da un’immagine degli anni 50. Dopo mi sono vergognata a pensarci, ma lì per lì ho pensato che fosse una barbona che chiedeva qualcosa. D’istinto ho toccato la borsa per sentire se era chiusa bene.
Aveva uno strano sorriso, triste e evanescente al tempo stesso. Non era italiana, da noi nessuna donna andrebbe in giro con abiti così fuori moda. Mi sono stupita dell’attenzione verso il libro che avevo distrattamente comprato all’ultimo momento, con l’attenzione alle dimensioni. Dell’autore non sapevo niente. Chi era questo russo che destava tanto interesse nella mia vicina nella sala di attesa?
Si mise a parlare con la voce calma e suadente di chi racconta storie ai bambini per farli dormire. Diceva che la stazione di ogni città è un buon punto di osservazione dell’essenza dell’umanità. Siamo tutti in attesa: di qualcuno che deve arrivare, di un altro luogo dove ricominciare. Tappe di un viaggio appena più grande.
Avevo iniziato ad ascoltarla per pura cortesia, poi i suoi discorsi avevano catturato l‘attenzione. Per un po’ di tempo ero riuscita a dimenticare il motivo di quel viaggio e la telefonata che aspettavo spasmodicamente. La donna parlava di calli e campielli di una Venezia magica. Aveva il tono di chi manca da tanti anni e ricorda una città filtrata attraverso tutto il fascino del ricordo.
Mi dovevo essere assopita perché a un certo punto ho sentito una mano leggera sulla spalla che mi scuoteva.
“Sta arrivando il treno per il Brennero; se è quello che aspetta, si affretti: il binario è già pieno“. Corsi al binario trascinandomi le mie valigie senza neanche ringraziarla.
Aveva ragione, il treno era già pieno e molti tentavano di salire spingendo con ogni mezzo. Riuscii a farmi aiutare a tirare su i trolley ma non evitai le male parole di quelli che erano nel corridoio e che si dovevano spostare per farmi passare. Quando finalmente arrivai al mio posto lo trovai occupato. La signora si rifiutò di alzarsi dicendo che me la rifacessi con le ferrovie. I suoi vicini girarono la testa dall’altra parte e nessuno si offrì di cedermi il posto, anche soltanto per un tratto del viaggio. Non ce l’avrei fatta a passare ore in piedi e già stavo pensando di scendere e aspettare il prossimo quando mi sentii chiamare. “Venga qua.” Riconobbi la voce della mia vicina nella sala d’aspetto. Per la seconda volta in poco tempo mi sono sentita maleducata di fronte alla gentilezza di quella sconosciuta.
Ci sistemammo in uno spazio angusto fra due carrozze, ma almeno non  era un punto di passaggio né era davanti alla toilette. Appoggiai la schiena a una valigia e mi sedetti sull‘altra. La signora invece con il cappotto fece una specie di puff e ci si  sedette sopra.
Potevamo vedere i cristalli di neve che lambivano il vetro del finestrino.

La donna della valigia

Era poca la neve che stava cadendo rispetto a quella che avevo visto per tanti anni durante l‘inverno, eppure tutte quelle persone ne sembravano affascinate, quasi eccitate. Chi non sonnecchiava guardava fuori dal finestrino. E‘ l‘Italia, il paese del sole per definizione.
La signora accanto a me sembra sofferente. E’ così magra che le ossa sembrano rientrarle. La sua sofferenza più grande è interiore, come se un grumo che le impedisce di respirare.
Il cellulare è sepolto nella tasca. Ha smesso di aspettare. Ha gli occhi chiusi ma non dorme. La sento sospirare. Non posso fare a meno di aprire la mia valigia. Per prima cosa tiro fuori le foto, poi rileggo per l’ennesima volta la sentenza del tribunale che condanna i soldati a una pena ridicola, da ultimo l’articolo del giornale del 2003 con l’inaugurazione del monumento alla memoria di Chris. La signora ha aperto gli occhi e osserva ma non chiede niente.

La donna del libro

Mi chiedo ancora se ho rimpianti nel lasciarmi alle spalle anni di vita con Stefano. No, nessuno, anche se i conti non tornano mai, l’unica certezza è la produzione di dolore in noi stessi e negli altri. Difficile dosare la sofferenza, ci vorrebbe la bilancia con cui gli antichi egizi pesavano il cuore del defunto per valutarne la leggerezza. Ho sofferto a lungo l’indifferenza, peggiore del disamore. Analizzo la mia angoscia: non so cosa troverò alla fine di questo viaggio. Hans non mi ha telefonato né mandato un messaggio. Ci sarà alla stazione di Bolzano ad aspettarmi? Mi sembra di sentire sulle guance la ruvidezza della sua giacca e il calore delle sue braccia. Purtroppo ho ancora voglia di amore. Ma cosa ha questa strana donna nella valigia? E’ quasi vuota. Tira fuori documenti in tedesco, vecchie foto. Non avrà mica qualche problema psichico!

La donna della valigia

“Dove è diretta?”
“A Bolzano. Lei?”
“Proseguo per Monaco e là cambio per Berlino”
 “Un viaggio molto lungo. Quando arriverà?”
“Il 5, in tempo per andare al cimitero dove è sepolto Chris per deporre un   libro di Brecht che lui amava molto. Lascerò una rosa sul monumento che lo ricorda. Se vuole le racconto la storia mia e di Chris.”
Vede questa foto? Fu scattata da un cliente fuori dal ristorante dove lavoravamo. Siamo usciti con il grembiule da camerieri nonostante fosse un inverno rigido.
Questa invece l‘ha fatta Margaretha, la mia compagna di stanza, una domenica di primavera. Chris fa lo scemo davanti all’obiettivo. E’ la sua foto più buffa, uno dei pochi ricordi che ancora mi fanno sorridere. Diventò amico di Christian, un ragazzo che faceva il cameriere insieme a noi. Avevano le stesse idee: non fare il militare per il regime, andare all’Ovest.
In questa foto ci sono tutti e due. I due Ci, come li chiamavo io. Sono davanti alla chiesa di St. Thomas a Lipsia.
Ripenso sempre alla neve di quella notte in cui Chris mi disse che voleva passare il Muro, che dovevo stare tranquilla perché era venuto il primo ministro svedese e che i soldati non avrebbero sparato. “Siamo a un passo dalla libertà” mi disse. Invece era a un passo dalla sua fine. Le guardie di frontiera gli spararono e morì nel corridoio fra il muro interno e quello esterno. 
Chris e Christian aspettarono che chiudesse il ristorante, poi si avviarono  verso gli orticelli privati Harmonie sulla riva del canale. I vopos intimarono l’alt e poi spararono, per uccidere.
Morì sulla striscia fra il muro esterno e quello interno. Quando corsi là l’avevano già portati via.  La neve non era più bianca. C’erano rimaste le impronte degli stivali dei soldati e il sangue dei due C.”
Questo è il monumento che il governo ha eretto qualche anno fa. E’ orribile, ma almeno è il segno che la grande Storia è passata anche da lì.
Lacrime rigano il viso magro della signora, non so se piange sulla sua o sulla mia storia.

“Una ferita che non ha mai smesso di sanguinare… non ha avuto una sua vita, dopo?”
“Si, certo. Mi sono sposata, ho avuto dei figli, ho divorziato. Come tutti. Ma la storia di Chris non l’ho mai dimenticata, non per motivi sentimentali, come potrebbe pensare lei, ma perché quella notte ho sentito l’alito della Storia vicino a me e io non sono più stata la stessa. Un alito glaciale e bello al tempo stesso, bello come i cristalli di neve. E’ un viaggio nella Berlino della mia giovinezza. Passerò a zig zag in quelle zone dove c’era il muro, giocando a passare dall’est all’ovest, come i bambini che saltellano su una gamba o su un’altra. Poi vedrò tutto quello che è cambiato o sta cambiando. Tutto scorre e sta a noi donne preservare la memoria di quello che è stato. Gli uomini fanno e disfanno, le donne si soffermano a raccogliere i ricordi che custodiranno fino in fondo.”

A Bolzano la donna con il libro si preparò a scendere. Si sentiva più leggera di quando era partita. Si stava riappropriando della propria vita.
Se non avesse trovato Hans ad aspettarla alla stazione si sarebbe concessa un albergo nel centro e poi un giro del centro, senza fretta.

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