lunedì 1 agosto 2011

WIF2 / e-zine di IF / Agosto 11


In questo numero di WIF:








Editoriale WIF2 / Agosto 2011
ASPETTANDO IL TENENTE D’AGOSTA…


Nuovo appuntamento per WIF. Questa volta presentiamo una serie di autori italiani e il ricordo di uno scrittore carrarese che si cimentò con successo anche nella fantascienza, Manrico Viti. Ripubblichiamo qui alcuni suoi brevi racconti che apparvero nei primi numeri della fanzine “Micromega” nel 1965.
E poi Giampietro Stocco, Carlo Menzinger, Emanuele Cassani, Michele Nigro, Renzo Montagnoli e la riproposta di un classico, Luigi Capuana.
Questo mese vede anche la pubblicazione del n. 7 di IF dedicato alle Distopie, che è in corso di distribuzione agli abbonati e a coloro che ne hanno fatto richiesta. Un numero densissimo di saggi, tra i quali vogliamo segnalare almeno lo straordinario intervento di Romolo Runcini, grande decano del fantastico – ha compiuto da poco gli 86 anni! – su Aldous Huxley. Davvero un numero da non perdere, come del resto il successivo, ora in preparazione: IF8 sarà infatti dedicato ai Fumetti, un tema che sicuramente attirerà un gran numero di appassionati. Sia per i nomi degli autori, sia per la sezione racconti che, assieme a Roberto Barbolini, Bruce McAllister, Fernando Sorrentino e altri, presenterà in prima edizione italiana un inedito racconto di Douglas Preston e Lincoln Child, la coppia inossidabile che ha dato vita alla “nuova dimensione della paura”, dove apparirà una vecchia conoscenza: il tenente D’Agosta.
WIF è gratuito, stampabile in proprio o leggibile come e-book. Ma esiste anche un’edizione in PDF, arricchita dagli originali con testo a fronte, disponibile al prezzo simbolico di un solo euro.
Versamenti con PayPal all’indirizzo: direzioneif@tiscali.it.
IF e WIF non cessano di stupire. Buona lettura e buona estate!



Non perdere IF, la "Micromega" della fantascienza italiana.
Queste le copertine dei numeri precedenti, ancora disponibili.
Ogni copia 8 euro. Per richiederle scrivi a:
rivistaif@yahoo.it.
IL CONDUTTORE
di Giampietro Stocco

“…E per questa edizione del telegiornale è tutto, signore e signori buonasera.” Fabio Niguarda concluse il notiziario con il solito sorriso sornione che, si diceva, tenesse avvinte tutte le casalinghe del Nordovest.
            Va' a farti fottere, pensò cupo Marco Donati. Lasciò la regia sbattendo la porta. Non gli andava proprio giù quel collega. Erano anni che si conoscevano e condividevano lo stesso acquario, così si chiamava l’open space di redazione visto dall’ufficio panoramico del capo. Per anni, come bagasce attempate, avevano battuto le strade per cercare notizie, ma alla fine, anziché Marco, era stato Niguarda il prescelto per il ruolo di conduttore nel telegiornale di maggiore ascolto. Era passato poco più di un anno, e quel maledetto sembrava in forma splendida. Ogni giorno più giovane, ogni giorno perfino più bello, pensò Marco furente, sfuggendo le occhiate sospettose di tecnici e impiegati. Anche loro, frusti e ammuffiti, proprio come me.
            Tornò a studiare Niguarda. E pensare che abbiamo la stessa età, sospirò ancora Marco, guardandosi nello specchio che il collega utilizzava per il trucco: una sapiente spolverata di cipria, e addirittura, con molta parsimonia, un accenno di eye-liner. Gli occhi scuri venivano così valorizzati al massimo, e sembravano entrare nella telecamera come succhielli. Marco studiò pensoso il proprio volto e sospirò di nuovo. Rughe profonde agli angoli della bocca, il viso crollato verso il basso, gli occhi contornati da profondi cerchi neri e appesantiti da brutte borse . Una tragedia, si disse, lamentandosi ancora una volta contro la malvagia sorte che gli aveva riservato una vita di strapazzi e non un comodo appuntamento serale al caldo, in compagnia della telecamera e di migliaia di spettatori.
            “Ciao, Donati? Come va allora? Tutto a posto? Tutto sotto controllo?”
            Da qualche tempo Niguarda non mancava mai di salutarlo con aria sardonica. Lo trattava come se sapesse qualcosa di strano sul suo contro. Marco lo capiva da come ammiccava nei suoi confronti. E quel ghigno…
            “Come vuoi che vada?” rispose. “Me lo chiedi tutti i santi giorni. Lo sai. Oggi va come ieri.”
            “Tutto sotto controllo, allora?” insisté mellifluo Niguarda.
            “Sì, sì. Tutto sotto controllo.” ribatté Marco, rassegnato.
            “Allora posso andare?”
            “Vai. Cosa aspetti?” Sparisci, idiota.
            Niguarda stavolta rise apertamente, varcò con le lunghe gambe la soglia della redazione e caracollò attraverso il lungo corridoio che conduceva all’uscita e ai parcheggi.
            Marco sospirò ancora, stavolta di sollievo. Come ogni sera a quell’ora, si abbandonò compiaciuto alla solitudine. Amava da impazzire quel momento della giornata. Subito dopo il telegiornale sembrava che i fatti si addormentassero. Le notizie avvertivano il temporaneo letargo di chi le diffondeva e si rintanavano nel guscio come molluschi. Anche il suo malumore si era assopito. Forse era arrivato il momento di tornare a casa.
            “Dottor Donati?”
            “Eh? Chi è?” Marco sobbalzò, impaurito.
            “Mi scusi. Mi hanno detto che l’avrei trovata qui, e…”
            Marco si voltò e i suoi occhi incontrarono quelli di un ometto imbarazzato. Era anziano: lo dicevano il portamento del corpo e le spalle curve, il modo incerto con cui teneva in mano un cappello a tesa larga. Il viso e la fronte erano pieni di rughe, ma gli occhi, di un incredibile colore verde acqua, sembravano quelli di un fanciullo. Iridi che sembravano ardere, al punto da creare imbarazzo.
            “C…chi è lei?” chiese Marco.
            “La guardia mi ha detto che potevo disturbarla…Vede, è per via di mia moglie… Non sta bene ultimamente…”
            “E io cosa c’entro con sua moglie? La porti in ospedale, no?” latrò impaurito Marco, che non riusciva a staccare gli occhi da quello strano uomo.
            “Aspetti, dottor Donati. Lei ha ragione. Non mi sono neanche presentato. Mi chiamo Giulio Binasco.”
            “Signor Binasco, è tardi, e io sto andando a casa…”
            “Dottor Donati, la prego. Quanti anni mi dà?”
            “Ma che domanda è? Che ne so, io? E’ venuto qui solo per questo?”
            “Quanti anni ho io secondo lei?”
            Marco sentì il lezzo del proprio sudore. L’ometto continuava a sondarlo con quegli occhi impossibili.
            “Ma io… Oh, santo cielo... Sessantacinque?”
            Binasco sorrise, amaro. “Vede, dottor Donati, io ho trent’anni. Sono stati gli ultimi tre mesi a ridurmi così, e lo stesso è successo a mia moglie. E’ a letto da settimane, ormai. E lei ha ventotto anni, capisce?” Binasco s’interruppe per tossire, un accesso cavernoso. L’uomo prese un fazzoletto dal taschino e si asciugò le labbra.
            Marco sentì il cuore battere all’impazzata. Aveva letto, negli ultimi mesi, della serie di misteriosi ricoveri all’Ospedale regionale, tutta gente giovane, ma apparentemente affetta da una misteriosa sindrome degenerativa. Cominciava come un’influenza, dolori articolari e febbre,  poi i malati sembravano misteriosamente perdere anni di vita. Se ne erano occupate anche  le testate nazionali. L’influenza che fa invecchiare, l’avevano ribattezzata. Dopo un picco che aveva fatto gridare alla pandemia, però, i casi erano diminuiti, e nessun degente era anocra deceduto. Così l’emergenza sanitaria era stata derubricata ad allarme e anche i giornali erano diventati meno attenti. Rimanevano tutti quei degenti, altrettanti vecchi in un fondo di letto, ma a chi interessa un vecchio in ospedale?
            “Senta, io la capisco,” disse Marco conciliante. “Ne abbiamo parlato anche noi. Si tratta solo d’influenza. Mal di stagione, capisce? Vedrà che nelle prossime settimane andrà meglio. E adesso, se permette…”
            “Non sta affatto andando meglio,” ribatté cupo Binasco. “Mia moglie sta molto male. E lei è l’unico che possa capirci qualcosa…”
            “Io non posso proprio farci nulla,” disse Marco mettendo avanti le mani. “La porti in ospedale!”

            “Crede non ci sia già stato? Non ci capiscono nulla!”
            “E io perché dovrei, invece?”
            “Non è lei quello che faceva i servizi sulla sanità? Quello che ha smascherato i falsi primari? Fu un’inchiesta memorabile: abusi di titolo accademico, truffa, giri di escort…” Di nuovo in preda alla tosse, Binasco si accartocciò su se stesso. Trasse un fazzoletto dal taschino ed espettorò muco giallastro.
            “S..sì” balbettò Marco, disgustato. “Ora, però mi limito alle iniziative dell’assessorato, qualche intervista sui malanni di stagione, e…” Esitò, ricordando come la propria parabola professionale avesse cominciato a picchiare verso il basso proprio in seguito a quell’inchiesta sui falsi primari. Qualche grosso papavero, beccato in compagnia di allegre donnine pagate da certe case farmaceutiche aveva finito per arrabbiarsi.
 Nuovi, squassanti colpi di tosse riportarono Marco al presente. “Dottor Donati. La prego.” Ancora quegli spettrali occhi verde acqua, fissi nei suoi. “Le basterà un attimo per capire”.
            “E va bene. Va bene!”  concesse Marco. Il nodo di angoscia che stava crescendo dentro di lui aveva già deciso. “Dov’è che abita?”
            “Mi segua. Non è lontano”.

            Proprio come se facesse strada a un medico, l’ometto lo precedette premuroso per un paio di isolati. Camminava a passi brevi e veloci, voltandosi ogni tanto indietro per controllare. A un certo punto si arrestò davanti alla mole oscura di un caseggiato, incorniciata dal cielo violetto dell’imbrunire.
“Entri” lo invitò.
Binasco aprì il portone, e Marco si trovò subito dentro un appartamento dai corridoi stretti e tortuosi.
            Lo colpì subito il frastuono. Ci volle qualche istante per abituarsi al contrasto tra oscurità e luce intermittente, ma di più per accettare quello che finì per vedere: televisori, a decine, di tutte le dimensioni, poggiati in ogni angolo della casa. A coppie, come soprammobili, poggiati su scaffali e cassettoni in corridoio. A gruppi, impilati sul pavimento,  e poi schermi che pendevano dalle pareti e dai soffitti. Tutti erano in preda a uno zapping ininterrotto. Pubblicità si susseguivano a intensi primi piani da pellicola hollywoodiana e a video musicali. Più che una cacofonia, un vero pandemonio di immagini, suoni e colori, che raggiunse l’apice quando Binasco scortò Marco nella camera occupata dalla moglie.
            La donna giaceva sul letto, gli occhi fissi su almeno una dozzina fra televisori tradizionali e impianti a cristalli liquidi e al plasma. A Marco parve che la sintonia mutasse al battito delle palpebre dell’inferma. Il nodo di angoscia si andava trasformando in panico.
            “Io me ne vado!”
            “No, la prego” implorò Binasco. “Lei è l’unico che può capire. Guardi!”
            “Senta, sua moglie ha bisogno urgente di un medico” aggiunse Marco indicando la figura sul letto. La donna era scheletrica. Nella luce intermittente degli schermi si distinguevano le ossa premere contro la pelle. Il volto era inespressivo, a eccezione degli occhi. Gli stessi, febbrili occhi del marito.
            “E’ cominciata un paio di mesi fa… Forse tre” iniziò Binasco torcendosi le mani. “Quasi senza che me ne accorgessi, Angela ha cominciato a vivere davanti alla televisione. Sempre quel telecomando in mano. Ha voluto che comprassimo altri due apparecchi, uno per la cucina e l’altro per la camera da letto…” Singhiozzò. “Non le bastava mai. Diceva che si sentiva soffocare senza immagini. Le voleva in bagno, in corridoio, ovunque. E quando c’era il TG…”
            “Che succedeva?” si riscosse Marco, che era rimasto rapito dal torcersi di quelle mani da vecchio.
            “Il suo collega Niguarda…Ad Angela piace tanto. Ho notato che si rianimava quando lo vedeva condurre il telegiornale. Lo sa?”
            “Che cosa?” chiese Marco ormai completamente disorientato.
            “Ho perfino chiamato la sua redazione per informarmi sui turni del suo collega. Così lo avrei anticipato ad Angela. Le dicevo, guarda, amore, fra poco c’è Niguarda alla TV, e lei riprendeva vita.” L’ometto sospirò, abbassando le spalle. “L’effetto però era temporaneo” riprese con fatica. “Ben presto non ha più voluto uscire. Diceva che fuori…”
            “Fuori cosa?” domandò Marco.
            “Che fuori era pericoloso. Che non avevamo bisogno di uscire, perché avevamo il mondo in casa. E che dovevamo riempire tutti gli angoli bui con la luce del mondo”
            La luce del mondo. Un brivido attanagliò le viscere di Marco.
            “E’ per questo che…?” balbettò.
            “Vuol dire tutti questi televisori?” Binasco allargò le mani indicando con un gesto vago la catasta di elettrodomestici. “Glieli ho installati tutti io, sa? Angela ormai non parla più, mi indica con un gesto dove vuole la TV, e io gliela sistemo. E' costato una fortuna, ma forse ne vale la pena...”
            Con la coda dell’occhio Marco carpì una variazione nell’accavallarsi senza senso delle trasmissioni. Tutti i televisori si sintonizzarono all’istante sullo stesso programma, un cartone di Topolino degli anni ’40.
            “Per qualche settimana Angela è sembrata migliorare” riprese Binasco mordendosi l'unghia del pollice. “Quando c'era Niguarda riuscivamo perfino a parlare. Adesso, però, da qualche giorno, è come se fosse in coma. Il suo sguardo è vuoto, e nemmeno il suo collega riesce a riportarla in sé.”
            Marco udiva a malapena quello che diceva Binasco. A sua volta non riusciva a staccare gli occhi dal cartone in TV. Macchine animate inseguivano Topolino in una sarabanda senza fine, fissandone la fuga con occhi tondi e malevoli. Stantuffi animati pompavano a ritmo e senza posa, sospingendo gli inseguitori verso la preda. Una musica indiavolata incalzava protagonisti di cartone e spettatori umani.
            “Devo portare Angela via di qui, capisce, dottore?” implorò nuovamente Binasco, ricominciando a torcersi le mani. Gli occhi verdi da fanciullo ripresero ad ardere in un volto che si era fatto colore del gesso. “Mi aiuterà?”
            “Io… io non so cosa dirle. Sua moglie è malata. E anche lei.”
            “Dottor Donati, la prego. Lei sa di sicuro cosa bisogna fare!”
            “Io non so nulla.”
            “La prego, dottore” singhiozzò stavolta Binasco. “Angela è tutto quello che ho.”
            Marco retrocedette lentamente verso la porta d’ingresso. I talloni incontrarono all’improvviso un ostacolo. Vacillò e cadde, rovinando su uno dei televisori. La macchina si azzittì di colpo, un penetrante odore di bruciato si sollevò dal suo interno. Dalla camera da letto giunse un lamento alto e prolungato, simile a quello di un animale ferito.
            “Angela!” gridò Binasco. “Cosa ha fatto, perdio, la vuole uccidere?” Angela!”
            L’ometto si precipitò verso la camera dell’inferma. Marco si rialzò a fatica, mollò una pedata al televisore ormai rotto e uscì dall’appartamento, dileguandosi nell’oscurità.

           
Si fermò dopo almeno tre isolati, appoggiandosi ansante a un muro. Il cuore gli batteva nel petto allo stesso ritmo degli ingranaggi di quelle macchine da cartone animato. D’istinto si voltò, sicuro che alle spalle avrebbe visto incombere quegli occhi rotondi.
            “Donati! Tutto sotto controllo?”
            Trovò invece la figura allampanata di Niguarda. A sua volta curiosamente simile a un cartone animato, il collega rise di gusto, poi azzardò un ganascino. “Ma che ci fai in giro così?” gli chiese premuroso. “E’ tardi e guardati, sei tutto stazzonato!”
            “Fabio, andiamo?”
            Donati allungò lo sguardo oltre le spalle del collega. Scorse una vettura grigia metallizzata. Al posto di guida fumava, impaziente, una giovane donna bionda.
            “E’ solo un mal di testa” mentì d’istinto. “Sono sceso a prendere una boccata d’aria”
            “Sceso, dici?” si meravigliò Niguarda. “Ad almeno dieci chilometri da casa tua?”
            “Niguarda, adesso mi controlli anche fuori dal lavoro?” se la prese Marco. “Fatti gli affari tuoi, c’è qualcuno che ti aspetta.” Indicò la donna: adesso era uscita dall'abitacolo e, improvvisamente simile a quelle macchine da cartone animato, sbuffava esasperata il fumo dalle narici.
            “Ehi, calma” rispose Niguarda allargando il sorriso. “Sono solo preoccupato per te. Ultimamente sei così irascibile. Ma se vuoi rimanere da solo, non c’è problema.” Si girò verso la compagna, ammiccando. “L’importante, Donati, è che tutto sia sotto controllo.”
            “Certo, certo, sempre sotto controllo, come no?”
            Marco cominciò ad allontanarsi a passi incerti.
            “Donati?”
            “Cos’altro c’è?”
            “Non farti problemi se qualcosa non va. Posso aiutarti. Davvero. Siamo amici, no?”      
            “Sì, certo.” replicò Marco, stanco. Riprese la sua strada e non si voltò. Udì alle sue spalle la voce della bionda recriminare qualcosa, poi smorzarsi di colpo quando le portiere dell’auto si chiusero. La vettura ripartì sgommando insieme a Niguarda verso chissà dove. Dalle finestre aperte del palazzo di fronte veniva un curioso bagliore ritmico, e un’eco. Era come se tutti fossero sintonizzati sulla stessa trasmissione. A Marco, per un momento, quel lampeggiare sincronizzato diede l’idea che il palazzo stesse vibrando di un’energia cosciente.
            Sta respirando?
            Turbato, accelerò il passo lasciandosi l'isolato alle spalle.
            Altrettanto non poteva con la scena irreale vissuta in casa di Binasco. Il ricordo gli accapponò la pelle. Cosa stava succedendo a quella gente? Quella donna era molto malata, e suo marito era evidentemente pazzo. Ma la malattia e la follia non bastavano.
            C’è qualcos’altro, lì. Qualcosa di brutto, si sorprese a pensare. Marco Donati non era un uomo facile a impressionarsi, ma non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di quelle macchine di cartone che, implacabili, inseguivano Topolino.
            Tornò a casa tardi quella sera. Solo quando mise la chiave nella serratura si rese conto di quanto fosse stanco. Un accesso di tosse lo squassò, e si ritrovò a sputare a sua volta muco giallastro.
Proprio come Binasco, dannazione! Devo andare dal medico, pensò mentre apriva la porta del bagno. Si studiò ancora una volta il viso allo specchio. Gli occhi apparivano sempre più infossati in quei cerchi color seppia.
Un bagliore gli rivelò che la televisione era accesa. Si girò e si acquattò, come se lo avesse sfiorato una freccia
“Chi c’è in casa?” domandò al buio con voce tremula. Era sicuro di averla spenta, quella maledetta, se non altro perché… Formularsi la ragione fu un tutt’uno con l’emettere un sospiro di sollievo. Marco si sollevò e raddrizzò le spalle. Quella carcassa era ancora un vecchio modello e doveva esserci qualcosa rotto nel sistema di accensione, al punto che ogni tanto partiva da sola. Marco se la prese con se stesso: possibile che fosse talmente suonato da essersi dimenticato i capricci delle sue cose?
Si lasciò cadere sul divano di peso, come faceva di solito, un breve zapping al telecomando e fu subito sul canale del TG. Niguarda già ammiccava soddisfatto. Marco ricordò che conduceva anche l’ultima edizione. Doveva avere appena finito la breve passeggiata in auto con la bionda, e un che di malizioso in quei liquidi occhi neri sembrava proclamare al mondo: sì, me la sono fatta. Quando Marco riuscì a concentrarsi sulle parole di Niguarda si accorse di essere in preda a un sordo furore.
“…Ancora una quarantina di ricoveri oggi all’Ospedale regionale dovuti alla cosiddetta influenza che invecchia” attaccò trionfante il conduttore. “Siamo ormai lontani dai picchi di cinquanta nuovi casi al giorno che si erano verificati un paio di mesi fa, ha dichiarato l’assessore regionale, che è stato all’ormai consueto briefing col ministro della Sanità.” Niguarda fece una pausa e trasse un respiro. Quando rialzò gli occhi parve come deluso. “La fase acuta, ha dichiarato il ministro, sembra dunque essere alle spalle, e i malati starebbero migliorando. I sintomi sono in via di riduzione nella maggior parte dei casi. All’Ospedale regionale rimangono sessantacinque  pazienti gravi. Sono costantemente monitorati” concluse Niguarda “e sotto terapia antivirale. E ora lo sport…”
Marco rimase a guardare. Si sentiva sempre peggio. Al fiato corto, che adesso non lo abbandonava nemmeno quando se ne stava seduto sul divano, si accompagnava una sensazione di nausea e un cerchio alla testa. Si toccò la fronte e se la scoprì calda. Negli ultimi tempi aveva avuto spesso quegli attacchi di febbre, ma non gli aveva dato peso. Al mattino passava sempre tutto. Provò paura. Spense la televisione per andare al bagno. Repentina come lo aveva colto, la sensazione di malessere lo abbandonò.
Scosse la testa. E’ solo depressione. All’inizio aveva dato la colpa al proprio lavoro, poi si era reso conto che questo era almeno altrettanto vuoto della sua vita. Niguarda passava da un’auto di lusso all’altra e da una donna all’altra; in una curiosa sincronia, lui si vedeva scivolare gli anni di dosso, senza nemmeno accorgersene. Possibile che adesso l’angoscia lo prendesse a intermittenza, divertendosi a stuzzicarlo, precipitandolo nell’angoscia più completa per poi mollarlo all’improvviso?   
Preso da un’ispirazione prese il telefonino.
“Betty?”
“Oh, sei tu? Chi non muore si risente.”
“Avevo bisogno di parlare con qualcuno.”
“E improvvisamente ti ricordi che esisto. Ma che voce sepolcrale, Marco.”
“Non sto bene, infatti. Ho la febbre.”
“Ti sei beccato l’influenza dei vecchi?”
“Chi lo sa. Forse.”
“Non è niente di grave, hai sentito alla tele?”
“Sì. Ma quelli ci raccontano quello che vogliono, no?” Marco si scoprì a sorridere. La voce di Betty aveva ancora il potere di metterlo di buon umore.
“Se lo dici tu…Io l’ho sempre sostenuto che tutta quella televisione ti avrebbe fatto male. Sai, le radiazioni, e come se non bastassero quelle, le pessime vibrazioni che ti trasmette il tuo lavoro.”
Marco sbuffò. Eccoci, di nuovo. Come se non si fossero separati ormai da tre anni e non si sentissero da più di un anno. I vecchi cliché riaffioravano, uno dopo l’altro.
“Ascolta, Betty…Non è colpa della televisione se il mondo va in malora…”
“No? Guarda la tua cara cronaca: bambini rapiti, stragi familiari, sassi dai cavalcavia, politici depravati. E voi cosa fate? State lì, a guardare dal buco della serratura. Tutti dietro ai vostri indici d’ascolto. Uno schizzo di sangue, tre punti di share, una testa mozzata, dieci. Uno scandalo di palazzo, quanto?”
“Non è tutto così. La televisione è una scatola magica, lo sai, dentro può starci tutto, e…”
“…E voi l’avete svuotata e l'avete trasformata in un cesso. Non è vero, forse? Lo sai come la penso, no?
Marco lo sapeva benissimo. Betty apparteneva a un gruppo organizzato, che si faceva chiamare No-Zap. Vicini agli anarchici, predicavano la controinformazione e nelle loro manifestazioni distruggevano a titolo dimostrativo televisori e radio.
“Certo che lo so come la pensi. L’ultima volta che ne abbiamo discusso a momenti perdevo il posto.”
“E io finivo in galera. Oh, Dio, Marco. Ma mi hai chiamato per parlare di televisione?”
Marco esitò. Era andata sempre così tra loro due. Tre anni di vita l’uno lontano dall’altra non avevano poi cambiato molto le cose. Maledisse insieme la propria logorrea e i propri silenzi. Si sforzò di riprendere:
“Senti, Betty. Qui c’è qualcosa che non va.” Raccontò la storia di Binasco.
            All’altro capo del telefono Betty smise perfino i tradizionali sospiri. Ascoltò senza interrompere fino alla fine.
            “E’… e’  curioso” commentò infine.
            “Non lo definirei curioso. Lo direi piuttosto agghiacciante”.
            “E’curioso perché sta capitando la stessa cosa con almeno un paio di mie amiche. I loro mariti, capisci…”
            “Gli stessi sintomi? Per un No-Zap è davvero il colmo!”
            “Non fare il furbo. E, sì sono gli stessi sintomi.”
            “E perché non ne ho sentito ancora parlare sui giornali?”
            “Davvero ti meraviglia?” ribatté subito lei, raccogliendo volentieri l'involontaria imbeccata. “Se leggessi anche dei periodici di vera informazione sapresti che ce ne sono dappertutto di questi “malati televisivi”: gente in tutta apparenza deperita che non riesce più a staccarsi dal piccolo schermo. Quelli in ospedale sono solo la punta dell'iceberg.”  
            “Controinformazione, come no” ironizzò lui. “Questo spiega perché il fatto sia rimasto in secondo piano.”
            “In TV non c’è proprio arrivato, questo fatto” precisò Betty, acida. Poi, scendendo di un tono: “Marco, cosa sta succedendo?”
            “Non lo so.”
            “La sera, in particolare” cominciò Betty. “Hai mai fatto caso al rumore che viene da fuori? E' come se…”
            “Come se?”
            “Come se a un certo punto tutti i televisori si sintonizzassero sullo stesso canale. Si sente come un’eco.”
            Un millepiedi s'inerpicò lungo la schiena di Marco. “Sono da te fra mezz’ora” disse, e riattaccò.
           
La casa di Betty era piccola e accogliente come se la ricordava, immersa nella quiete della periferia elegante della città. Villette a schiera si alternavano a ville bifamiliari di architettura liberty. Non si vedevano caseggiati più alti di due o tre piani, ma anche qui il sinistro bagliore ritmico dei televisori sintonizzati sullo stesso canale lanciava lampi lividi sulla strada.
“Dai, facciamo presto”, fece lei comparendo sulla soglia di casa e avvolgendosi in uno scialle. “Non c’è tempo da perdere”.
            “Dove stiamo andando?” chiese Marco.
            “Non ha importanza” tagliò lei. Tossì, espettorando.
            “Anche tu con questa maledetta influenza?”
            “Già. Ma adesso sta passando. Svelto, siamo attesi.”
            Svoltarono quattro o cinque volte finché l’elegante quartiere di Betty non lasciò il posto a palazzi più alti e dall’aspetto più ordinario. Il lampeggiare dalle finestre era adesso più chiaro nell’oscurità della notte. Betty procedeva con passo spedito. Marco, che la seguiva a un paio di passi, si godeva lo spettacolo del leggero abito estivo che le fasciava fianchi e cosce, evidenziandone le curve. Un accesso di tosse interruppe la sua contemplazione e gli fece considerare l’andatura di Betty per ciò che la provocava: la genuina angoscia di non arrivare in tempo.
            Dopo qualche minuto Marco comprese che la sua sensazione era giustificata. Betty bussò appena a un anonimo portone dalla vernice grigia scrostata. Una feritoia si aprì, rivelando due sospettosi occhi azzurri, incorniciati da una fitta rete di rughe. Lo sguardo si spostò da Marco per poi rilassarsi quando incrociò quello di Betty.
            “Entra”, disse una voce nasale. Il portone infine si aprì, rivelando la figura di un anziano di età indefinibile. Aveva i capelli bianchi e radi, e il volto come avvizzito. Altri vecchi confabulavano in una grande anticamera. La maggior parte smise di parlare e fissò i due nuovi venuti.
            “E’ lui il giornalista?” chiese una donna, aggressiva. “Non capisco proprio cosa ce l’abbia portato a fare!”
            “Già” fece eco un altro anziano, tossendo. “Forse per farci vedere che l’influenza colpisce anche quei maledetti?”
            Scioccato, Marco si passò una mano sul volto. Scoprì solchi e segni che, poteva giurarlo, al mattino non c'erano.
            “Adesso basta, ragazzi” esclamò Betty, voltandosi verso Marco. Solo allora, nell’incerta luce di quel locale, lui poté vedere come nuove rughe avessero fatto banchetto sul viso di quella che era stata la sua donna. Betty sembrava una sessantenne, e lo sfacelo appariva contenuto solo se lo si confrontava con quello delle altre facce. Tutte appartenevano, Marco lo capì con chiarezza, a persone fra i trenta e i quarant’anni. Tutti quanti, di sicuro, esponenti di spicco di No-Zap.
Betty lo tirò per un braccio, strappandolo alle sue riflessioni.
“Entra in quella stanza e dimmi che ne pensi.”
La porta era socchiusa, bastò spingerla appena. Il battente girò veloce sui cardini, andando a sbattere sulla parete e rimbalzandovi contro più volte. I colpi secchi risuonarono in controtempo con la raffica di lampi che illuminavano la stanza. A quel ritmo doppiamente sincopato appariva e spariva la sagoma di un uomo. Sedeva rigido in poltrona, mani sui braccioli, lo sguardo perso su almeno sei schermi televisivi che irradiavano il medesimo cartone animato. Stavolta era Braccio di Ferro, intento a pestare una coda infinita di Blutos che finivano per schiantarsi tutti allo stesso modo contro il suo pugno gigantesco.
A un tratto l'ultimo Bluto fu sostituito da un gigante colorato e zannuto, curiosamente fuori posto rispetto agli altri personaggi. Braccio di Ferro girò la pipa in bocca. Fece appena in tempo a dire u-hu che il nuovo venuto ammiccò dallo schermo e sollevò un piede titanico, abbattendolo sul marinaio mangiatore di spinaci. Il gigante rise e passò oltre, lasciandosi alle spalle un'inaspettata e realistica pozza di sangue, materia cerebrale e membra schiacciate. La chiazza rossa si allargava sullo schermo, pronta a traboccarne.
Marco fu riscosso da un gemito. Era il vecchio che guardava la televisione, stavolta rivolto verso di lui, gli occhi verdi come quelli di Binasco, un filo di bava che colava dall'angolo della bocca.
Aiuto.
Quegli occhi invocavano pietà da un insondabile pozzo di sofferenza.
“E' mio... bè insomma, era mio marito.”
Betty si accese una sigaretta, e cominciò a trarne boccate veloci.
“Da quanto tempo sta così?”  chiese Marco, distogliendo lo sguardo dall'infermo. Sugli schermi delle televisioni intanto i resti di Braccio di Ferro erano stati riposti in una pattumiera da un solerte gatto-scopino. Bluto intanto tambureggiava trionfante sulla porta di casa di Olivia.
“Non saprei, è malato da due settimane forse” rimuginò Betty, sbirciando di nascosto l'orrendo cartone. Gli amici nell'anticamera stavano intanto affollandosi sulla soglia della stanza, gli sguardi vuoti a seguire quanto accadeva in quella lugubre variante del mondo di Popeye.
“Devi portarlo via” scandì Marco, facendosi forza per non guardare a sua volta  le tv. Sulla scena del cartone, intanto, era tornato il gigante. Il piede ancora imbrattato del sangue di Braccio di Ferro calò stavolta sul tetto della casa di Olivia, sbriciolandolo con realismo.
“Dovete andarvene da qui” precisò Marco battendo le palpebre al ritmo dei lampi sulle pareti della stanza.
Gli eventi precipitarono. Il titano di cartone si chinò ridente tra le rovine della casa appena scoperchiata, frugando tra brani di muro di un impossibile color rosso vivo, da cui sporgevano frammenti frastagliati di travi color giallo chiaro. Rovistò ancora e ancora, finché nella mano non strinse il corpo esanime di Olivia. La camicetta rossa e la lunga gonna nera erano a brandelli. Si vedevano generose porzioni di carne bianca come il gesso. Olivia era ricoperta di tagli sanguinati e ammaccature violacee. Il gigante rise forte, ancora una volta, poi portò la preda alla bocca, e la divorò in due rapidi bocconi. Con un calcio smembrò il furioso Bluto, che si dissolse in una nuvola sanguigna, e dopo un potente rutto caracollò via dalla scena. Partì la sigla finale, la pipa di Braccio di Ferro che fischiava una marcia funebre.
Marco si appoggiò al muro per reprimere i conati. Betty e i suoi amici fissavano ormai senza parole il cartone, gli occhi accesi di un verde smeraldo.
“Aiuto...”
Stavolta lo aveva sentito davvero. Era il marito della sua donna, ancora seduto,  gli occhi febbrili, ma coscienti, fissi nei suoi.
“Tuo marito si è svegliato, presto, andiamocene di qui” cominciò Marco scuotendo la sua ex. Invano. Betty continuava a fissare istupidita gli schermi televisivi.
“Tutto a posto, allora? Non mi pare proprio...”
Stavolta le tv si sintonizzarono tutte su uno scenario più familiare. Lo studio del Telegiornale. Niguarda ammiccava, gli occhi color giaietto, seduto comodamente dietro la sua scrivania.
Marco strizzò gli occhi. Il collega gli appariva diverso, ancora più giovanile rispetto al solito, le spalle più larghe, i capelli più scuri e più folti, il naso più carnoso. Il consueto tratto di eye-liner unito a un'inaspettata abbronzatura lo facevano assomigliare all'icona di uno scriba egizio. Quasi non entrava più nell'inquadratura.
“Allora, Donati?” incalzò l'apparizione elettronica di Niguarda.
“Aiuto, la prego...” tornò a invocare, debole, l'uomo seduto.
Marco si riscosse.
“Venga con me, avanti!”
Prese per mano l'infermo, attirandolo a sé. Avvertì uno schiocco umido, il polso dell'uomo che cedeva sotto la sua presa, ma ignorò i lamenti. Il marito di Betty lo seguì con passi incerti e strascicati oltre il muro degli amici ormai impietriti. Marco si imbatté nello sguardo vuoto della sua ex. Esitò per un attimo, poi passò oltre. Insieme uscirono dalla stanza e si diressero verso la porta dell'appartamento.
“Vuoi capirlo o no che è inutile? Dove pensi di andare?” lo irrise il Niguarda catodico.
“Fottiti” sibilò Marco in tutta risposta. Uscì in strada tirandosi dietro il malato.
La risata di Niguarda echeggiò a lungo nella via deserta, poi sfumò in una professionale lettura delle ultime notizie:
“... Triplice omicidio in periferia. Vittime, due anziani americani, marito e moglie, e un terzo uomo non ancora identificato. Secondo le prime testimonianze, Olive Oyl, 75 anni, sarebbe stata divorata da un enorme animale che è entrato sfondando il tetto della sua abitazione. L'aggressione mortale è avvenuta dopo che il marito della vittima, il connazionale Popeye, 80 anni, era stato a sua volta sbranato fuori dell'appartamento. Un terzo cadavere parzialmente smembrato è stato rinvenuto poco lontano. Battute di caccia sono in corso per catturare la belva. Si consiglia di rimanere in casa... Capito Donati? Torna a casa. Puoi avere il mondo in casa! La luce del mondo!”
Insieme con il suo nuovo sodale, Marco marciò tra due ali di palazzi illuminati a intermittenza dai lampi televisivi che uscivano dalle finestre simili a fuochi pirotecnici. Il notiziario si trasformò in un lamento a metà tra la risata e l'ululato. Avvertì la paura entrargli nelle ossa e indebolirgliele. Si sforzò di proseguire,  trascinandosi sempre dietro il marito infermo di Betty.

Strisciando sempre più i loro passi, attraversarono l'intera città. La notte era attraversata da un vento caldo, e misteriose forme parevano affacciarsi dalle nuvole che si rincorrevano nel cielo. Senza sapere davvero come, Marco si ritrovò davanti all'edificio della Televisione. Alzò gli occhi verso le stelle. Distinse la sagoma di un'immensa schiena che si nascondeva nel buio dietro le colline lontane. Ripensò al gigante che aveva divorato Olivia e ucciso Braccio di Ferro, e pianse.
Una mano gli sfiorò le spalle. Era il marito di Betty, le iridi che stavano virando dal verde all'ambra. L'uomo assentì grave. Il pensiero raggiunse Marco come una rivelazione.
Siamo dove dobbiamo essere, e basta. Anzi no. C'è ancora qualcosa da fare.
Esausti, ma determinati, varcarono il portone del palazzo. Marco fece appena in tempo a chiedersi perché fosse ancora aperto a quell'ora della notte. Poi scorse sul pavimento un paio di gambe vestite di azzurro spuntare dall'ampio desk dell'entrata. Più lontano un busto, fasciato di una camicia dello stesso colore. Il sangue era ovunque.
La guardia.
            Incassando la testa nelle spalle, Marco proseguì verso gli studi. L'uomo al suo fianco non si faceva più trascinare, ma procedeva al suo stesso passo.
            Uno stridere lamentoso li fece arrestare. Udirono pesanti tonfi, suoni di metallo che si contorce e infine si spezza. Poi un singulto ritmico e ripetuto, simile a mantici azionati da massicce macchine a vapore. Quel trambusto celava però altro.
            Qualcosa come...
            Marco infine lo riconobbe. Il suono dell'angoscia e insieme di chi si fa beffe dell'angoscia.
            E' Niguarda che ride.
            “Infine sei arrivato, Donati? Proprio non potevi startene lontano, vero?”
            La voce gli arrivava direttamente nella testa e insieme nelle viscere, facendolo tremare fin nel profondo. Marco si portò d'istinto le mani alle orecchie, ma si accorse che il non-suono le escludeva del tutto. Il rombo lo consumava da dentro. Vicino a lui, il marito di Betty riprese a lamentarsi, un rivolo di sangue che gli scendeva dall'angolo di un occhio. Marco si passò una mano sul volto, e si accorse di stare sanguinando allo stesso modo.
            La vibrazione crebbe ancora d'intensità, fino a fargli credere che gli avrebbe polverizzato le ossa. Udì ancora i tonfi, profondi e sempre più vicini. Quando pensò che la bassa frequenza gli avrebbe fatto implodere il corpo, Niguarda finì per mostrarsi.
            Sotto l'intensa luce dei riflettori, il collega era un'apparizione da incubo: era alto più di di quattro metri, muscoli enormi e guizzanti, la pelle rossastra coperta a malapena dai brandelli dell'ultimo doppio petto e della camicia di lusso. I capelli corvini erano solo un disegno, un'ombra sul massiccio cranio bombato, e le iridi nere occupavano ormai l'intera superficie oculare. I denti, grossi e squadrati, erano stretti in un rictus che sarebbe apparso feroce, se gli angoli della bocca non fossero stati piegati all'insù.
            Ciò che Niguarda era diventato stava adesso sorridendo a Marco.
            “Lo vedi cosa può fare una buona scopata?” lo irrise l'apparizione aliena. “Ah, a proposito, era davvero buona!”
            L'essere scoppiò in un'altra delle sue risate subsoniche.
            Cazzo, s'è mangiato la bionda! Marco registrò a malapena l'informazione quando le vibrazioni provenienti da Niguarda gli provocarono un attacco di atroci dolori alle giunture. Il marito di Betty giaceva ormai esanime sul pavimento di linoleum dello studio.
            “Mi basta continuare a ridere e sei morto” constatò l'essere. Sembrava incerto sul da farsi.
            “Fallo allora. Non hai desiderato che questo, da quando ci conosciamo. Mi hai già ammazzato professionalmente, del resto.”
            “Vero. Ma è stata colpa tua. Io volevo esserti amico.”
            L'accento prolungato sull'ultima parola provocò un brivido oscuro nella colonna vertebrale di Marco. Due costole si incrinarono, straziandolo.
            “Amico, già...” sibilò Marco tenendosi un fianco.
            “Impossibile, infatti” constatò l'essere. “E visto che non potevo esserti amico, sono diventato migliore di te. Non c'è voluto molto. Così mi sono detto, perché non diventare il migliore di tutti?”
            Rise ancora. Le costole incrinate si spezzarono con un netto schiocco. Marco tossì, espettorando stavolta non muco, ma sangue rosso vivo.
            “Ci vorrà ancora poco, mio mancato amico”. L'essere che era stato Niguarda si chinò, passando due lunghissime dita sul volto imbrattato del collega. Leccò poi con avidità il liquido carminio che era rimasto sulle punte. “Tutto sta a desiderare davvero qualcosa, lo sai?”
            Il dolore salì ancora. Marco trovava sempre più difficile pensare. Attraverso lo schermo rossastro del proprio sangue, vide Niguarda contorcersi e crescere ancora di statura e dimensioni. Adesso doveva tenere la testa china per stare in piedi nello studio. Assomigliava sempre più all'orco gigante del cartone animato. Tre passi dall'eco tonante, il mostro girò dietro la scrivania del conduttore del telegiornale. Con due dita spostò la sedia e vi si lasciò cadere, frantumandola. Finì seduto per terra. Gettò l'enorme testa all'indietro e scoppiò a ridere di nuovo, i denti grossi come polpastrelli umani che scintillavano sotto le luci. Stavolta fu l'intero edificio a tremare dalle fondamenta.
            Niguarda smise di ridere e guardò davanti a sé. Era diventato talmente grosso che, seduto sul pavimento, arrivava con comodo al tavolo del conduttore, e riusciva a stare in un'inquadratura concepita per una persona che stava in piedi. Sorrise ancora.
            “Lo vedi, Donati? Posso ancora fare il mio lavoro. Anzi, ora posso farlo meglio di sempre!”
            Come a un segnale convenuto, le luci si regolarono sulla modalità del notiziario. Immobilizzato sul pavimento, Marco si concentrò sul plasma dietro il mostro. Il grande schermo era suddiviso in una serie di riquadri: uno mostrava una sequenza di foto di ragazzine in succinti costumi da bagno durante la festa di qualche pezzo grosso del governo; un altro un talk-show in cui due politici prima si insultavano, poi cominciavano a picchiarsi selvaggiamente; su un terzo girava a loop un'esecuzione mafiosa ripresa per strada da un telefonino. Su un altro ancora scorrevano immagini di immensi incendi in corso in varie parti del mondo. Qui si indovinavano, confuse tra le fiamme, le stesse titaniche sagome che Marco aveva intravisto poco prima, fuori dell'edificio, sullo sfondo delle colline.
            “Signore e signori, buonasera!” tuonò improvvisa la cosa-Niguarda. “Il momento è giunto.” La luce rossa era accesa sulla telecamera fissa.
            Marco si addossò a una parete, tirandosi dietro il corpo del marito di Betty. Si accorse che l'infermo stava meglio. Respirava ancora con affanno, ma era vigile. Scambiarono uno sguardo d'impotenza.
            “Come ti chiami?” ansimò infine il giovane-vecchio.
            “Marco, e tu?”
            “Giacomo. Non posso dire che è un piacere...”
            L'uomo abbozzò un sorriso esausto, poi col mento indicò Niguarda.
            “Da sempre l'uomo si è chiesto come potesse arrivare la fine” riprese la creatura-conduttore. “Escatologia, religioni, scienza. Ciascuno ha tentato una spiegazione, ignorando però quale fosse la risposta più immediata e vicina.”
            Niguarda fece una pausa a effetto. Tirò su gli angoli della bocca, scoprendo i denti squadrati. Il suo colorito stava virando verso il rosso acceso.
            “I vostri scienziati lo chiamano multiverso a brane: più dimensioni, diciamo almeno undici, una delle quali a bassa  gravità ed energia, vicinissima alla vecchia Terra, quasi sovrapposta, ma non del tutto. Abbastanza, però, per essere percepita e perfino chiamata, nei secoli, con un nome: Aldilà, Inferno, L'Altro Mondo, fate voi.”
            L'essere rise di cuore, facendo vibrare di nuovo le ossa di Marco.
            “Vi basti sapere che questa dimensione da sempre si interseca con la vostra, nutrendosi di ciò di cui ha bisogno. Emozioni. Speranze. Violenza. Tutte cose inestimabili in un mondo che un essere umano non può nemmeno concepire. Ma adesso le cose sono cambiate.”
            La cosa-Niguarda si assestò sul pavimento ed emise un roboante peto.
            “Il nostro mondo sta collassando. L'unica salvezza è riequilibrare l'energia con quelli vicini. Il veicolo, le radiazioni elettromagnetiche. Vista la vicinanza tra i nostri universi, un tempo bastavano quelle emesse dai vostri mistici e profeti. Quanta energia in semplici menti organiche! Impetuosi come fiumi in piena, i loro pensieri attraversavano la sottile membrana tra i nostri universi. E noi, avidi, ci abbeveravamo. Prendevamo sostanza nelle vostre visioni. Ma mancava  ancora qualcosa. Pazienti, vi abbiamo spinto, ogni giorno un passo, Così adesso c'è la televisione. Ci sono i computer. Basta sfiorare un pulsante, ed ecco il fantasma nella macchina, pronto a spingervi ancora più avanti.”
            Niguarda alzò la voce, come il rombo di un tuono.
            “Oltre, sempre oltre. Presto non c'è stato più nemmeno bisogno di spronarvi. Avevate già tutto il necessario. Pornografia. Pedofilia. Fanatismo. Paura. Omicidi. Stragi. Guerra. Morte!”
            La creatura ormai gridava, come perduta nella tempesta. L'aria nello studio si era fatta lattiginosa, quasi tangibile.
            “Morte... che per noi è vita. La membrana si è lacerata. Adesso possiamo entrare.”
            Il mostro sollevò una mano grande quanto una pala. Con un artiglio, luccicante sotto i riflettori, indicò il plasma dietro di sé.
            “Anzi, siamo già entrati. Come è già successo altrove, questo è diventato il nostro universo. E voi siete già il nostro cibo. ”
            La luce rossa della telecamera si spense. Niguarda si alzò, mandando via con un calcio il tavolo del conduttore. Il pesante oggetto andò a infrangersi contro una parete.
            “Tornerò per te, Donati” promise il mostro, tornando a sorridere. “Adesso c'è altro che devo fare”. Con un manrovescio investì una fila di riflettori. Le lampade sfrigolarono, poi esplosero, spegnendosi. Passi pesanti che si attutivano in lontananza annunciarono la dipartita di Niguarda.
            “Banale, vero, come fine del mondo? Ancestrale, direi meglio. Finire come pranzo per l'orco.”
            Marco si girò. Nella luce verdastra diffusa dall'impianto di emergenza, vide che Giacomo si era tirato su e gli sorrideva. Le iridi erano tornate di un marrone quasi normale e, poteva giurarci, i capelli gli si erano scuriti.
            “Ti senti meglio? Com'è possibile?”
            “A quest'ora dovremmo essere morti entrambi, no? Credo che il tuo amico abbia già attinto a tutta l'energia di cui ha bisogno.”
            Marco si tastò braccia e gambe. Si sentiva mortalmente stanco, ma il dolore lancinante alle giunture si era ridotto di diverse grandezze. Ora gli pareva soltanto di essere passato sotto un treno.
            “Poi lo ha detto, no?” riprese Giacomo. “Ci mangeranno tutti quanti. Come in un quadro di Bosch.”
            “Credi che siano...?” Marco non riusciva nemmeno a pensarci.
            “Demoni? E anche se non lo fossero, anche se tutta quella storia strampalata non fosse vera, cosa cambierebbe?”
            “Allucinazioni... L'influenza dei vecchi...”
            “Andiamo, Marco.” Giacomo indicò le macerie dello studio. “Un'allucinazione non distrugge un palazzo. L'influenza dei vecchi è stata solo un altro mezzo per ingannarci. Prima di... prima di tutto questo facevo il ricercatore. Fisica teorica. Quel mostro ha parlato di brane, di multiverso. Qualcosa che ho studiato. Qualcosa di reale.”
            Il fisico si andava animando sempre più. Guardandolo, Marco poteva distinguere quasi a occhio nudo le rughe riempirsi e sparire. Giacomo riprendeva via via l'aspetto del trentenne che era stato prima che la malattia lo colpisse.
            “Ma guardati!” sbottò alla fine il giornalista. “I tuoi capelli sono diventati neri, e le tue mani...”
            Giacomo si fissò le palme, le strofinò una contro l'altra.
            “Sì, l'artrite è scomparsa. La degenerazione si è arrestata. E di sicuro non piango più sangue” aggiuse, grattandosi via dalle guance quanto rimaneva del liquido rosso, ormai disseccato.  “Lo hai sentito, il demone, no? Non hanno più bisogno di risucchiarci la vita, ora che sono qui e possono comodamente ucciderci tutti”.
            “Dunque è questo il Giudizio Universale?” chiese tetro Marco.
            “No. Diciamo piuttosto uno Sterminio Universale.” Giacomo indicò il plasma di studio, che si era appena riacceso. Gli schermi mostravano la stessa scena, in corso in più Paesi: titani dall'aspetto fiammeggiante, che sbriciolavano città e incendiavano rovine, mentre colonne di profughi venivano sospinte da giganti color porpora che sembravano copie o cloni della cosa-Niguarda, tutti armati di clave. Gli umani che si fermavano venivano massacrati a bastonate e poi caricati su camion. Alcuni venivano divorati sul posto dai colossali aguzzini.
            Disgustato, Marco distolse lo sguardo. Uno dopo l'altro, gli schermi si spensero definitivamente.
            “Stanno disattivando i network televisivi” constatò Giacomo. “Non gli servono più nemmeno quelli.”
            “Dobbiamo fuggire!” esclamò all'improvviso Marco, ricordandosi della promessa di morte di Niguarda.
            “E per andare dove?” ribatté Giacomo. “I mostri saranno ovunque. No, adesso è il momento di pensare.”
            “Pensare a cosa? Niguarda tornerà da un momento all'altro!”
            “Lo hai sentito, no?  Vuole te per ultimo. E credo che questo sia l'ultimo posto dove pensa di trovarti.”
             “Non ci pensi a Betty?” insisté Marco.
            “Betty è spacciata” stabilì Giacomo, cupo. “Il mostro si è alimentato in primo luogo dei nostri pensieri. Sa dove abito, sa che in casa c'erano almeno dieci persone e se ha fame, quello è il primo posto dov'è andato. E dove non dobbiamo andare noi.”
            “Ti prego... “ tornò a implorare Marco.
            “Aspetta. Fammi pensare. Ha parlato di mondo a bassa energia. Di riequilibrio...”
            “Ma ammesso che sia vero quello che ha detto Niguarda, ci sono voluti secoli, e una quantità immensa di energia per lacerare quella che chiama 'membrana'! Come possiamo riuscirci noi due da soli?”
            “Non certo creando un cunicolo interuniverso” convenne Giacomo, ormai completamente lucido. Cominciò ad aggirarsi per lo studio in rovina, rovistando tra le macerie come in cerca di idee. “Non abbiamo abbastanza energia. Eppure...”
            “Eppure cosa?”
            “E' tutta una questione di soglie.”
            “Ma che diamine stai dicendo?”
            “Hai mai sentito parlare del gatto di Schrödinger?”
            “Cosa? Ma sei pazzo?”
            “No, ascolta. E' una teoria che spiega la meccanica quantistica e che ci può aiutare anche in questo caso. Ascolta: immagina una stanza perfettamente isolata dall'esterno, dove un fisico un po' stronzo chiuda un atomo radioattivo, una fiala di un potente veleno e un gatto...”
            “Giuro che...”
            “Fammi andare avanti. L'atomo è in uno stato tale per cui, a una certa ora, avrà uguale probabilità di essere o no decaduto. Il fisico ha anche collegato l'atomo al veleno in modo che questo sia liberato se l'atomo decade. Il veleno è abbastanza potente da uccidere immediatamente il gatto.”
            “E allora?”
            “All'ora convenuta il fisico stronzo, poniamo, proprio io, aprirà la stanza. Cosa troverà?”
            “Sei tu il fisico. Illuminami,”
            “Pensa a un attimo prima dell'apertura della stanza: il sistema che comprende l'atomo, la fiala e il gatto per il cinquanta per cento sarà in questo stato: l'atomo non decaduto, fiala di veleno intatta e gatto illeso. Ma con altrettanta probabilità il fisico si troverà davanti l'atomo decaduto, il veleno liberato e il gatto morto.
            “E allora?”
            “E allora, quando Giacomo, il fisico stronzo. apre la stanza, avviene un processo di misurazione. Questo processo forza il sistema misurato a compiere una scelta.”
            “Aspetta, aspetta... Vuoi dirmi che è l'osservazione a decidere della sorte di quel povero gatto?”
            “Secondo la meccanica quantistica, sì. Ed è la meccanica quantistica a regolare l'universo, anzi il multiverso che ci ha illustrato prima il nostro demone.”
            “Non capisco il nesso” disse Marco, rassegnato.           
            “Non è così difficile” insisté Giacomo, “L'universo dei demoni è appena dietro la porta di casa, o forse anche più vicino, giusto?
            “Giusto.”
            “E' come quei particolari che si colgono appena, con la coda dell'occhio, o no?”
            “Ma è altrettanto remoto della galassia più vicina!” Marco fece un gesto di resa e si prese il capo tra le mani.
            “Non è proprio così” obiettò Giacomo. “Non vedere la porta non significa che non ci sia. Dobbiamo solo imparare a guardare. Imparare a guardare significa ipotizzare, E ipotizzare porta a compiere un'osservazione. Dunque se ipotizziamo una porta...”
            “... Quella porta deve esserci! Ma certo!” completò speranzoso Marco.
            “In un certo senso, amico mio, in un certo senso” ripeté Giacomo pensoso. Il suo sguardo si fissò sul pavimento. In un angolo sfrigolava un cavo da riflettore, tranciato dalla furia del demone.
            “Adesso ascoltami bene, Marco...”
            “Che ti salta in mente, adesso?”
            “Devi solo...”
            “Sei pazzo?” esclamò Marco, rendendosi conto all'improvviso. “Vuoi morire come un idiota?”
            “Lo so che sembra folle, ma persa per persa, è un tentativo. Ascoltami. Tutte le culture del mondo parlano di una soglia tra vita e morte. E si tratta della stessa soglia di cui ha parlato quel bestione.”
            “Ma come farai a...?”
            “Io posso solo provare ad andarci, di là. Poi sarai tu a richiamarmi. Allo stesso modo.”
            “E come, se è lecito?” gridò Marco, terrorizzato. “Evocando il tuo spirito?”
            “No. Più semplicemente, usando il defibrillatore che è custodito in questo armadietto.”
            Trionfante, Giacomo finì di sgomberare le macerie del tavolo sbriciolato da Niguarda e aprì le ante di uno scomparto incassato nella parete. All'interno, in due distinti involucri plastici, il riconoscibile congegno da ospedale e un generatore elettrico.
            “Sapevo che l'avevate per le emergenze, quella fissata di Betty mi obbligava a vedere tutti i tuoi servizi!” Giacomo abbozzò un sorriso timido.
            “Oh, Cristo, ma...”
            “Appunto, Cristo, o chiunque altro si trovi dall'altra parte, dobbiamo provare a comunicare!”
            “Ma perché tu?”
            “Perché il fisico sono io. E tu sei quello che racconterà tutta la storia. Adesso però basta con le chiacchiere, se no rischiamo davvero che a Niguarda venga in mente di farci visita prima del tempo. E ricorda...”
            “Che cosa, dannazione?” chiese Marco stringendo i pugni per l'impotenza.
            “Che dovrai richiamarmi entro cinque minuti. Altrimenti il mio cervello sarà pappa buona solo per il tuo amico orco.”
            Giacomo si accucciò vicino al cavo. Guardò affascinato le scintille per alcuni istanti.
            “Abbraccio la bestia dai molti colori, come diceva Stephen Stills...”
            All'improvviso il fisico impugnò l'estremita scoperta del cavo. Ci fu uno schiocco, come di ossa spezzate. L'uomo fu avvolto da un alone azzurrino e si distese come un elastico, i talloni e la testa poggiati a terra. Poi cadde riverso, gli occhi spalancati.
            Con gli occhi fissi sul cronografo da polso e le orecchie puntate verso ogni rumore che potesse arrivare da fuori, Marco cominciò ad aspettare.


                                                                       *

            Bianco, abbagliante. Intenso come la luce del sole a mezzogiorno, eppure diverso. Alzo gli occhi al cielo. Non riesco nemmeno a sbirciare l'astro, tanto è grande. Cerco di farmi schermo con le mani, ma non riesco. Non riesco proprio a muovermi.
            Tutto intorno a me è come su un immenso ghiacciaio, ma non provo freddo. A dire il vero non provo proprio nulla, nemmeno paura. Se questa è la morte, è molto sopravvalutata.
            Ma non può essere la morte.
            Anche se non riesco a vedere o a muovere il mio corpo, penso, interagisco. Senza alcun dubbio sono  da qualche altra parte.
            O forse è tutto dentro il mio cervello, un'eco di segnali elettrici che si va lentamente spegnendo? Quanti minuti saranno passati? Quanto tempo mi rimane?
            E cosa devo cercare?
            Ma cos'è quella forma enorme che si muove? Si trascina verso di me. Forse...
            E ora che succede? Come faccio a volare sopra i ghiacci?
            C'è qualcosa che mi trasporta. E' così difficile muoversi. Ora avverto il peso... Assomiglia... Assomiglia a un uccello, ma non lo è, ha ali ma anche mani e un volto e...
           

                                                                       *

            “Respira! Cazzo! Uno, due , tre, respira!
            Giacomo batté le palpebre una, due volte.
            “Bwueh...”
            “Cazzo cazzo. Lo sapevo. Lo sapevo. L'ho aiutato a uccidersi!” Marco tornò ad abbattere i pugni sul petto del fisico, come aveva fatto negli ultimi quattro minuti, dopo avere usato più volte, invano, il defibrillatore.
            “Bawh... bada... a non farmi male!”
            “Grazie a Dio sei vivo!” esclamò il giornalista, abbracciando goffamente il compagno.
            “Le costole... Attento! Devo essermene fratturato alcune, quando sono andato... di là...”
            “Di là... Ah, già.” Marco si passò le palme sul fondo dei pantaloni e si ripulì del gel e del sudore. “Cos'hai visto?”
            “Visto, è dir poco. Ascolta, Niguarda mente.”
            “Mente, cioè?”
            “Il diavolo mente.”
            “Lo sapevo, hai subito dei danni al cervello. Dannazione!”
            “Appunto, dannazione. Ascoltami. Il diavolo, o qualunque cosa sia. Chi viene di là ci mente. Proprio come è scritto nella Bibbia.”
            “Ma che cosa stai dicendo?”
            “Ha detto che il suo è un mondo a bassa gravità ed energia, è vero il contrario.”
            Marco si sedette su uno spezzone di muro e si passò gli indici sulle tempie.
            “Cerca di spiegarti, vuoi? Ma fallo in fretta. Ormai Niguarda potrebbe tornare da un momento all'altro.”
            “Con i nostri aggeggi elettromagnetici abbiamo indebolito la membrana tra i mondi, sì” iniziò a spiegare Giacomo “ma abbiamo anche convogliato il vuoto.”
            “Come sarebbe?”
            “E' così chiaro, adesso. Vedi. Di... là esiste un mondo molto diverso dal nostro, illuminato da un sole più grande e più potente, con una gravità molto maggiore della nostra. Ecco perché sono così massicci... “
            “Continuo a non capire.”
            “Ma sì, invece! Di... là ci sono i mostri come Niguarda, ma riescono a malapena a muoversi. La leggerezza li attira, li affascina, il vuoto è come una droga per loro. Ma non è solo vuoto fisico, capisci?”
            “Non proprio.”
            “Sono come spugne intrise d'acqua fino all'inverosimile. Anelano a liberarsi. Il vuoto fisico e soprattutto quello interiore danno loro l'illusione della libertà. Il male è illusione di libertà da tutto, e per loro è come un lampione per una falena.”
            “Il diavolo è il rifiuto di ogni limite” mormorò Marco, pensoso.
            “Ci sei, adesso? Creature pesanti, feroci e disperate, che vivono in un mondo-prigione e che anelano solo alla libertà.” Giacomo avvicinò pollice e indice. “Un mondo così vicino a un altro dove le leggi fisiche non ti puniscono e la specie dominante tende a risolvere ogni problema con la violenza.”
            “La membrana doveva cadere prima o poi.”
            “Il Giudizio Universale, già.”
            “Hai visto solo questo, di là?”
            “C'erano anche queste creature volanti, che...”
            “Avete finito con le vostre chiacchiere escatologiche?”


            L'inumana voce li scosse di nuovo, a metà fra il tuono e il ronzio di un immenso alveare in migrazione. Di nuovo caddero in ginocchio, l'agonia nelle ossa e negli occhi lacrime che sapevano essere rosse.
            “Anche tua moglie era buona... Giacomo, vero? Grassa al punto giusto. Ha gridato il tuo nome, prima che me la pilluccassi come uno spiedino! Adesso però ho di nuovo appetito.”
            “Bastardo!”
            Giacomo lottò contro il dolore. Riuscì ad alzarsi, opponendosi alla cosa-Niguarda, che torreggiava sopra di lui. Il mostro era comparso senza fare alcun rumore, come materializzato dal nulla.
            Gli occhi dell'ex-conduttore fissarono con curiosità il piccolo uomo mentre questi gli si lanciava contro, tambureggiava invano con deboli pugni e calci contro le sue gambe, simili a colonne color carminio. Marco vide che le iridi di Niguarda erano diventate gialle, come quelle dei serpenti.
            Da strette e ellittiche che erano, le pupille verticali si dilatarono come quelle di un gatto. La mano destra della cosa-Niguarda scattò come la zampa di un predatore, infilzando Giacomo all'altezza del ventre, e sollevandolo davanti al volto come un trofeo.
            Il fisico gemette appena, i capelli di nuovo candidi, il sangue delle lacrime che si mischiava con quello delle devastanti ferite infertegli dal mostro.
            “Ricorda... Marco. Il gatto è vivo!”
            “Vuoi stare zitto?”
            Il demone sospese Giacomo come un chicco d'uva sopra l'enorme bocca spalancata, poi ritrasse gli artigli. Il corpo del fisico scomparve nella cavità, le mascelle scattarono e si contrassero più volte. Con evidente gusto il mostro chiuse gli occhi, poi li riaprì.
            “Adesso siamo tu e io, Donati” riprese Niguarda forbendosi le labbra nere, dalle quali colava bava sanguigna. “Che ne dici di riprendere quel discorso che ci eravamo riservati?”
            Il mostro fece due rimbombanti passi in avanti. Marco retrocesse d'istinto. Quando la cosa-Niguarda sollevò di nuovo il titanico piede fu sicuro che glielo avrebbe abbattuto addosso, schiacciandolo come Braccio di Ferro in quel cartone da incubo. Chissà se i demoni avevano scelto proprio quella metafora e quel momento per accompagnare il loro passaggio nel mondo umano.
            “Non posso prometterti che non soffrirai” disse il demone continuando ad avanzare. “Ho aspettato troppo a lungo e i bocconi prelibati si gustano senza fretta.”
            Un altro passo avanti del mostro, un altro profondo tremore nelle fondamenta del palazzo, un altro passo indietro di Marco. Il giornalista stava cercando di guadagnare l'uscita dello studio per poter fuggire il strada. Niguarda se ne accorse e srotolò una massiccia coda che ostruì anche l'ultima via di scampo.
            “No, perché scappare? In fondo non è bello per un giornalista morire lavorando?” domandò mellifluo . “Potrai dire di avere fatto la fine di Molière. A pensarci bene, però, non vedo proprio a chi potrai raccontarlo.”
            Marco cominciò a riflettere a velocità febbrile.
            Vogliono la vita... La leggerezza... Siamo sulla soglia... La membrana è già lacerata... Il gatto è morto e insieme è vivo... Il gatto...
                                                                       *

            I ghiacci... La luce... E' abbagliante, e quel sole, non è il sole del nostro mondo! Non riesco a sollevare nemmeno una mano per ripararmi!  E il peso, inimmaginabile! Morirò di sicuro... Ma dov'è Niguarda? E'... è rimasto... Ora ci sono! Anch'io ho passato la membrana, e lui è rimasto dall'altra parte,  ma adesso? Cosa ci faccio in questo deserto?
            -Tu sei quello che ha creduto?
            E adesso che succede? Cos'è questa voce?
            - Sembrava impossibile un viaggio in senso opposto, ma vedi?
            E quest'altra? Sto impazzendo, non c'è dubbio. Sono morto e mi si sta spegnendo il cervello come stava succedendo a Giacomo.
            - Non sei morto. Sei nel nostro mondo. Guarda.
            Non riesco... L'aria è così... densa!
            - Sforzati. Credi.
            Tutto questo riflesso... E' abbacinante! No, aspetta. Calma. Forse se chiudo gli occhi, ma che fatica... Com'era quella vecchia preghiera? Padre nostro, che sei nei cieli...
            - Ci sei vicino. Ma qui non c'è padre né madre.
            - Però c'è il cielo. E nel cielo si può volare.
            Ehi.
            “Ehi. Ma chi siete voi?”
            Di fronte a Marco volteggiavano tre esseri, o entità, il corpo lucente come argento, ali da uccello con tanto di piume, in tutto simili a quelle degli angeli. Ogni tanto le battevano, veloci come quelle dei colibrì, muovendo appena l'aria pesante come piombo.
            “Siamo Coloro che Volano. Questo è il nostro mondo.” rispose quella che si rivelò come la prima voce. Apparteneva a un essere che si distingueva dagli altri due per una maggiore altezza e per il tono sbrigativo, quello di uno abituato a dare degli ordini.
            “Siamo i Custodi del Cielo” intervenne una voce più gentile. “Da eoni combattiamo contro la stirpe dei ghiacci. Riusciamo a malapena a tenerli sotto controllo.”
            “Quando qualcuno non li chiama da mondi vicini, per giunta” intervenne di nuovo l'Angelo dal tono sbrigativo.
            “Come... come posso fermare quello che...”
            “Quello che succede nel tuo mondo, dici?” intervenne finalmente il terzo Angelo. “Allo stesso modo in cui sei arrivato qui. Devi credere.”
            “Come, credere?”
            “La ragione che tu chiameresti 'scientifica' è troppo complessa. Sappi solo che quanto accade al tuo mondo, in qualche momento del tempo, è ancora una potenzialità. Sta a te decidere cosa accadrà. Devi credere.”
            Marco rifletté.
            “Il gatto è vivo!” esclamò all'improvviso. Avrebbe voluto darsi una manata sulla fronte, ma la gravità non glielo consentiva.
            “Cos' è 'gatto'?” chiese il primo Angelo, accartocciando perplesso il viso argenteo.
            “Non ha importanza. Ho capito.” Combattendo contro la gravità, Marco sorrise.
            “Bene. Forse l'impossibile succederà ancora” disse il terzo Angelo. “Ma ora portiamolo via di qui, prima che il suo stesso peso lo schiacci.”
            Il secondo Angelo prese delicatamente Marco sotto le braccia e le ginocchia e lo sollevò senza sforzo. Le grandi ali presero a battere come turbine, e...
            Ancora la luce. Quel sole... Il peso sta diminuendo... Ma che mondo è mai questo? E dove stiamo andando adesso? Ma che importanza ha? Tutto ciò che devo ricordare è che...
           
                                                                       *

            “… Il gatto è vivo!”
            “Il dannato gatto sarà anche vivo, ma tu sei morto!”
            Marco si ritrovò riverso, nel piazzale davanti a un palazzo in rovina che riconobbe a malapena come quello della Televisione. Alzò gli occhi di quel poco che gli consentiva la sua posizione, per scorgere, enorme una zampa violacea dalla quale spuntarono, letali, artigli color argento. All'improvviso ricordò.
            “Il gatto è vivo!” ripeté ridendo, mentre la cosa-Niguarda lo abbrancava, stringendolo con dita simili a pistoni idraulici.
            Fa male, pensò Marco all'improvviso. Fa male come la gravità in quel mondo dal sole enorme...
            Mentre l'aria sfuggiva dai suoi polmoni e le costole incrinate si spezzavano come fuscelli, Marco raggelò: e se avesse sognato quel viaggio incredibile? Era stato così veloce! E se invece fosse sempre stato prigioniero di quella zampa infernale, così stretto da perdere il respiro e sentire le ossa frantumarsi, prima di finire maciullato da quelle zanne da incubo?
            “Lo hai capito finalmente, insetto?” Una scintilla di comprensione comparve negli occhi verdi della cosa-Niguarda. Le labbra rosse si aprirono su file di denti da squalo mentre l'incarnato del volto virava verso un blu elettrico, e le corna...
            Corna? Occhi verdi? E quelle labbra non erano nere? E tutto quel blu?
            “Il gatto è vivo, maledizione!” urlò Marco con tutta la forza che gli rimaneva, dritto sul naso camuso dell'essere.
            Il minotauro-Niguarda muggì di dolore e lasciò cadere Marco, che toccando terra si storse dolorosamente una caviglia. Ignorò la fitta e si specchiò nel riflesso di un frammento della vetrata dello studio distrutto. I capelli erano di nuovo scuri e la pelle elastica.
            Si alzò, zoppicando, fronteggiando il mostro che, inaspettatamente iniziò ad arretrare.
            “Come osi sfidarmi?” ululò l'essere. Barcollava, e con le braccia muscolose si stringeva il petto. Marco poteva giurare che fosse più basso. Prese la rincorsa e lo percosse con un violento calcio nel massiccio stinco bluastro.
            Il suo piede aprì una ferita tanto ampia quanto inaspettata. Una tibia e un perone grossi quanto un giovane albero si spezzarono con un rumore secco. Niguarda strillò e si abbatté al suolo, contorcendosi per il dolore. Le corna si erano ritirate dal suo cranio, che stava cambiando forma.
            Sconvolto, Marco osservò l'essere mutare ancora, fino ad assumere le sembianze di un grosso infante, la testa massiccia su un corpo da nano, la gamba destra spezzata di netto. Sopra di loro, la notte si stava aprendo in un'alba dall'impossibile luce verdastra.
            Uccidilo, cosa aspetti? Non è quello che volevi, forse? Non è così che ti liberererai da lui? Da tutti loro? Non devi fare altro che...
            “No.”
            Libertà da ogni limite. Libertà di fare e di prendere. Libertà di...
            “NO!”
            Marco alzò gli occhi e vide il cielo dorato del primo mattino. Dalle colline in lontananza si stava levando il familiare sole del suo mondo.
            “Il gatto è vivo.” mormorò annuendo a se stesso.
            Ai suoi piedi gemeva e si contorceva la sagoma familiare di Niguarda. Il giornalista, l'abito a brandelli, si teneva stretta la gamba, spezzata di netto appena sopra la caviglia. Da un'ampia ferita sporgevano pezzi di osso.
            “Mi hai fatto male, Donati...”
            “Vieni qui. Stai calmo.”
            Marco si chinò. Infilò una mano sotto la testa del collega, sorreggendola. Fissò occhi neri, le iridi iniettate di sangue. Niente corna. Niente zanne o artigli. Si girò verso gli studi. Il palazzo era integro. Sorrise.
            “ E'tutto finito, adesso.”
            Con attenzione prese Niguarda sotto le spalle e lo tirò su. Avvertì la puntura crudele della distorsione. Zoppicarono entrambi verso l'ospedale.

                                                                       *

            Sistemato che ebbe il collega, e fatta fasciare la propria caviglia, Marco uscì dal pronto soccorso e si concesse un lusso da tempo dimenticato: si comprò un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Fu subito colto da un attacco di tosse. Non se le ricordava così forti. E quel sapore gommoso d'altri tempi! Rise, e tossì più forte. Stava quasi per strangolarsi, quando sobbalzò al suono del telefonino, ancora custodito nel taschino interno della giacca stazzonata.
            “Sì?” rispose ancora ridendo, senza guardare il nome sul display. Dopo tutto quanto era successo, gli mancava solo che lo cercassero al cellulare. Ma era davvero successo qualcosa? La città sembrava uguale a se stessa, la gente si comportava come sempre, la televisione al pronto soccorso non aveva riferito di disastri.
            “Sei di buon umore?”   
            Oh, Dio.
            “Betty! Stai bene? Dove sei?” chiese a raffica.
            “E dove dovrei essere? Sono da me. Ti ho cercato a casa, ma non c'eri. Mi sono preoccupata e così... Scusa se ti ho disturbato sul telefono aziendale...”
            Il telefono az... Marco odiava i telefoni cellulari, per la disperazione di Betty non ne aveva mai posseduto uno. Guardò l'oggetto come fosse un serpente velenoso. E come mai non se n'era accorto prima?  E Betty, perché mai lo aveva chiamato su un'utenza del genere, viste le sue frequentazioni politiche non proprio tranquille? Che ne era stato di No-Zap? Esitò, disorientato.    
            “Marco, che succede? Sei così strano... Sei sicuro di non essere tu a stare male?”
            “No, è solo che sono un po' stanco, e...”
            “Niente se e niente ma, riparto subito e torno a casa. Non mi convinci.”
            “A... casa?” Marco era esterrefatto. Tornò a guardarsi nel riflesso del grande portone di cristallo del palazzo della Televisione. Il volto... Si strofinò incredulo una faccia su cui si disegnava la barba che aveva portato per qualche mese tre anni prima. Anche se...
            Il gatto è vivo.
            “S... sì, voglio dire, sì, ti aspetto, allora. Vieni presto a... amore!”
            “Non me la conti proprio giusta, tu” ribatté sospettosa Betty all'altro capo. “Delle due, l'una: o mi tradisci, o staranno arrivando quelle tempeste elettromagnetiche di cui hanno tanto parlato.”
            “Che tempeste?” s'incuriosì Marco. Poi rammentò. Tre anni prima c'erano stati degli strani fenomeni, black out in tutto il mondo, auto e oggetti elettronici in panne per ore, aurore boreali visibili a latitudini insolite. “Ah, sì” rispose infine. “Saranno le tempeste”.
            “Va bene, va bene, oggi è una giornata così. Ci vediamo a casa. Non vedo l'ora.”
            Betty finalmente riattaccò.
            Finalmente Marco capì: era stato riportato indietro nel tempo.
            Ma lungo quale linea temporale?
            Si specchiò ancora e cominciò a notare qualche differenza: la barba che portava non era l'ornamento stile-profeta che Betty aveva detestato fin dall'inizio, ma un aggraziato pizzetto che compensava la tendenza del suo volto ad arrotondarsi; il telefono cellulare piatto e dallo schermo pieno di icone, un oggetto che il suo gusto, con sua grande meraviglia, non esitava a definire bello. A testimoniare che qualcosa di strano era successo, c'erano solo i suoi abiti maltrattati.
            E Niguarda...
            “Il compagno Donati?”
            “Sì, sono io. ”
            Come, compagno?
            “Scusi, come mi ha chiamato?”
            “Compagno, come la dovevo chiamare? “ rispose indifferente la caposala, che sull'ampio petto portava una targhetta di riconoscimento ornata da una stella stilizzata. “Senta qui, il compagno Niguarda ne ha per sessanta giorni. E, ha deciso di non sporgere denuncia. La prossima volta però risolvete i contrasti da persone civili. Saluti socialisti”.
            Ciabattando in un paio di zoccoli sformati l'infermiera tornò dentro l'ospedale.
            Policlinico Ernesto Guevara. Cazzo.
            Marco distolse lo sguardo dalla insegna d'ingresso. Barcollò e si appoggiò a un corrimano. Nell'aiuola lì davanti un usciere alzò un vessillo bianco, rosso e verde con una stella rossa al centro e lo salutò militarmente. Un'auto elettrica sibilò lungo il viale a velocità sostenuta. La seguì un'altra, poi un'altra ancora.
            Il gatto è vivo.
            “Già” si disse Marco. Raddrizzò la schiena e rispose alla perplessità sospettosa dell'usciere portandosi due dita alla fronte. L'uomo scosse il capo. “Capitalisti”, mormorò con evidente disgusto.
            Marco mise avanti un piede, poi l'altro. Presto si ritrovò a camminare lungo il viale di buon passo, le scarpe sfondate, il  vestito stazzonato, in mano il telefono che non ricordava di avere mai avuto e la nuova vita ricevuta in dono. Non poté evitare di sorridere per tutto il tempo.