lunedì 6 giugno 2011

RUNCINI: IL ROMANZO INDUSTRIALE

Romolo Runcini
IL ROMANZO INDUSTRIALE

È di prossima pubblicazione il terzo volume della trilogia La paura e l’immaginario sociale nella letteratura di Romolo Runcini, dedicata al Romanzo Industriale e pubblicato, come i due precedenti, dall’editore Liguori di Napoli. Abbiamo posto al prof. Runcini alcune domande:

D. Il terzo volume dovrà andrà a parare?Si parlerà ancora della macchina?

R. Il terzo volume è tutto sulla macchina. La nascita dell’avventura non più singolare dell’individuo con l’ambiente, ma dell’individuo col sistema-ambiente, che è quello indotto dalla macchina. Il terzo volume è importantissimo, e con quello credo concluderò il gruppo dei libri sulla paura. La paura della macchina è quella per cui c’è un mondo altro di cui bisogna impadronirsi, bisognare conoscerne a fondo le strutture, il sistema-macchina, ma poi c’è anche il problema di corrispondere con una propria visione a un sistema che unisce la macchina al mondo delle macchine. È un fatto universale.

D. Allora in questo contesto la paura per la macchina cambia molto

R. Non è più quella del mondo altro, il passato o il mondo della città. La macchina ha in sé un mistero, ma è il sistema macchina che induce a una trasformazione profonda del mondo dell’uomo con la natura. La natura scompare dopo la Rivoluzione industriale, non è più un punto di riferimento ed è sostituita da concetto di sistema. Che è poi essenzialmente l’automobile, che ha sconvolto il mondo dell’uomo. Ha sue regole precise da seguire. Una rivoluzione che è un’imposizione che aiuta l’uomo, ma che lo supera come forza e come idea dell’operosità e della produttività. Si crea un nuovo rapporto tra l’uomo e il meccanismo.

D. Quando si parla del nazismo, c’è un recupero del rapporto tra l’uomo e la natura.

R. Sì, c’è un recupero, ma è di tipo nazionalistico, non più individuale. L’individuo è in subordine rispetto alla collettività nazionale. Il fascismo è quello che ha intravisto per primo questa nuova forma di rappresentazione dell’uomo nella società, una società organizzata, meglio se uniformata: Questa simbologia entra direttamente nel rapporto con la modernità. Soprattutto in Germania nasce questo concetto di modernità. La stessa struttura dello stato nazista è una macchina, una macchina sociale.

D. E allora: come sta nel rapporto con la macchina e con l’evoluzione della paura? Se non sbaglio, non sei dell’opinione che sia nata con Luciano di Samosata, bensì nel periodo della rivoluzione industriale.

R. Non a caso si chiama fanta-scienza. È una scienza fantastica. Nasce con la scienza, con la rivoluzione industriale. È l’espressione di una modernizzazione del passato che viene proiettato nel futuro, attraverso la conoscenza diretta di un sistema che non più un sistema natura, ma è un sistema macchina. Il passato viene ad essere visitato in proiezione futura. Appunto, questo è l’interessante del SF, con una consapevolezza e con strumenti rappresentativi del passato. Ma è soltanto con la rivoluzione industriale che nasce la SF. Anzi, dopo la rivoluzione industriale.

D. Quali autori possiamo indicare in questo contesto, oltre al solito Wells?

R. Lo stesso Kipling ha scritto dei racconti interessanti sulle macchine. Sulle macchine futuro, su un certo tipo di aeroplano. È con la rivoluzione industriale, soltanto allora, che viene non solo la consapevolezza di un grosso ribaltamento dei rapporti tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e la società, ma anche di un concetto della fantasia umana diverso rispetto a quello precedente. La fantasia umana del passato era tutta costruita su un mondo fiabesco, un mondo notturno, di forme ancestrali, mentre la SF è tutta proiettata nel futuro. Non c’è più il gioco, dopo la rivoluzione industriale si tratta di produzione, e da allora nasce un movimento ideologico che corrisponde alla produttività dell’industria e anche il senso del futuro. Finora il senso del futuro era tutta alchimia, raffigurazioni curiose.

D. Quando parliamo di fantascienza si pensa subito al romance (da cui la vecchia distinzione tra romance e novel). Ma come mai questo tipo di produzione si richiama più al romance? Il novel non era il tipo di produzione classica del realismo, di narrativa non fantastica.

R. Il novel è la rappresentazione del presente, mentre la SF e la virtualità sono legate al romance, ma non a quello settecentesco, bensì a quello vissuto dopo l’età dell’industrializzazione. Cioè direi un romance in opposizione all’età industriale. Il nuovo romance, al contrario del vecchio romance, che si cullava nelle fantasie del passato, è il tentativo di recuperare quelle forme del passato impossibile a riprodursi, in un mondo che è industrializzato. Quindi il nuovo romance è in qualche modo fuori binario, è un’invenzione vera e propria, mentre il vecchio romance corrispondeva esattamente ai desideri e ai bisogni, alle istanze verso un mondo altro rispetto a quello reale. Qui no, qui c’è l’invenzione della realtà, una realtà tutta diversa. Quindi non c’è affatto continuità col vecchio romance. È una ripresa del genere, ma con caratteristiche completamente diverse.

D. Queste due forme di produzione letteraria, il novel come romanzo e il romance nella forma di letteratura di genere, coesistono per tutto il secolo XX?

R. Coesistono però con questa differenza. Mentre il vecchio romance aveva la sua carta di credito assolutamente valida che veniva dal Medioevo, con le sue fantasie cavalleresche e il bisogno di esprimere l’eroe, mostrare la forza della mente e della volontà, nel nuovo romance invece è un ricordo di queste cose, un ricordo più o meno valido e sbiadito, di un mondo che attribuiva alla fantasia più forza di quanto se ne possa avere oggi. Oggi la fantasia è stata in qualche modo convogliata sull’idea di inventare cose nuove. Non di ricordare cose vecchie. La fantasia è quindi spostata sull’avvenire. Mentre prima era un modo per liberarsi, per uscire dalla società attuale e ripensare al mondo di Re Artù, per esempio. Oggi non è possibile liberarsi, perché il costume, il modo di essere non è più il rapporto con la città, ma dell’uomo con il sistema-città. È tutto un altro discorso. E quindi con le macchine, in realtà. La fantasia dell’uomo è sempre calibrata sul concetto di “riproduttività” o “produttività”. Quindi direi che il mondo del futuro è visto dal punto di vista narrativo come l’unica avventura possibile, ma in uno spazio e con strumenti programmati. In altri tempi all’individuo era possibile affrontare l’ignoto. Adesso non è più possibile, perché tutto è noto, questa è la differenza. Prima c’era l’ignoto, on la macchina, con la stampa, col rapporto quotidiani con le immagini, ecc., non è più possibile questa invenzione singolare.

D. Sarà per questo che la fantascienza, in molte opere, va a ricercare mondi lontani o ne crea di inesistenti…

R. Certo, cerca di uscire da un sistema bloccato. E comunque ha una sua dimensione e una sua movimentazione.

D. Una delle critiche che venivano rivolte anni fa alla fantascienza, è che parlando di mondi inesistenti, non parlava dell’uomo.

R. Questo perché non è possibile immaginare l’uomo in un avvenire che non conosciamo, lo possiamo individuare soltanto come androide. E quindi come “servo”, come essere al servizio di una macchina, di un sistema. Andava bene il nazismo, in questo senso…

D. Era perfetto. Ci saranno tanti autori che tu vorrai trattare nel volume sulla fantascienza, allora? A cominciare da Verne e Wells, ad esempio…

R. Certo. Verne però… Tra Verne e Wells c’è un abisso. Sono quasi coetanei, ma mentre Verne continua una tradizione di evoluzione dell’uomo nel senso di una meccanizzazione organizzata e ben calibrata, e quindi arriva anche alla città automatizzata, Wells invece è ancora attento alla problematica della libertà dell’uomo, alla concezione dell’uomo radicato nei rapporti sociali e quindi la sua libertà è un uscir fuori dal sistema macchina. In Wells c’è questa curiosa combinazione: rappresenta certo il mondo futuro attraverso questa energia meccanica, ma anche il bisogno dell’uomo di resistere all’uniformità, all’omologazione.

D. Credo sia un po’ il filo conduttore del pensiero inglese…

R. Certo, esatto. Molto giusto. Mentre il pensiero francese, in Verne, c’è soltanto il senso dello sviluppo, senza tener conto del problema nazione, del problema lingua, del problema città e si va verso un tipo di realismo futuro che è molte volte sconnesso dall’evoluzione del mondo, in Inghilterra c’è sempre la lingua che costringe lo scrittore ad una “terrestrità” da cui non può uscire, e questa condizione è la sua nazione, la sua lingua, il suo concetto di uomo legati alla tradizione liberale britannica.

D. Non sarà per questo motivo che la distopia, come sottogenere del romanzo fantascientifico, nasce proprio in Inghilterra?

R. Infatti. In Inghilterra nasce questa forma di reazione alla meccanizzazione umana. C’è un’idea di società sì meccanizzata, ma mai aliena rispetto alla soggettività e alla libertà dell’uomo.

D. Quindi il romanzo distopico è una caratteristica del primo Novecento inglese o dobbiamo attendere il periodo tra le due guerre?

R. Lo vedrei piuttosto consistere nella formazione ideologica di due opposte realtà nazionali, quella tutta chiusa nel concetto di Stato (il nazionalsocialismo) e quella sempre aperta nel concetto di nazione. Perché sopravvive l’Inghilterra? Non solo perché aveva Churchill, un uomo formidabile, ma perché l’uomo inglese è libero fin dalla nascita, per costituzione. È libero di esprimere se stesso, al di là dello Stato. Invece in Germania c’è una forma di soggezione allo Stato, soprattutto sotto il nazismo. Bisognava glorificare lo Stato. In Inghilterra l’individuo è individuo, e semmai è lui che sceglie di entrare in una collettività, il che non gli impedisce di sentirsi un individuo.

(l’intervista a Runcini è stata pubblicata sul n. 3 di IF, 2010)

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