lunedì 1 agosto 2011

LA CASA DEL GRANDE FRATELLO
di Michele Nigro

“Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.”
 (Dante Alighieri, La Divina Commedia
 Inferno, Canto XXXIII, 67-74)

Quando riaprì gli occhi, l’unico ricordo ancora persistente nella sua mente confusa e spaventata era quello di un fazzoletto bianco piegato e dallo strano odore mentre si avvicinava minacciosamente tra naso e bocca. Non aveva avuto nemmeno il tempo di capire a quale specie di essere umano appartenesse la grossa e vigorosa mano che lo sosteneva nel palmo.
Fu un attimo e la sequenza successiva consistette in un classico tunnel nero da anestesia con eco annessa. Poi seguì il nulla audiovisivo.
Il risveglio in quella stanza buia non fu più incoraggiante dell’oblio: si ritrovò distesa supina su un vecchio materasso maleodorante poggiato in terra; la bocca impastata di dolce saliva al cloroformio e polvere, e un bruciore sottile ma fastidioso proveniente dagli arti inferiori. Il posto non era completamente buio, come le era sembrato durante i primi secondi dall’apertura delle palpebre, quando aveva ancora la testa girata verso la parete non illuminata della stanza: un fascio di luce elettrica puntata nella sua direzione e proveniente da uno degli angoli della stanza, le permise di confermare la completa assenza di finestre o balconi.
“In quale buco infernale sono capitata? E’ notte o è giorno? Per quanto tempo ho dormito?” – si domandò la ragazza cercando di compiere su se stessa una prima opera di razionalizzazione allo scopo di trovare un motivo rincuorante, capace di darle l’energia necessaria a sollevare il corpo dal materasso mentre ancora indugiava con gli occhi tra il soffitto e la luce.
Lo fece e nonostante il giramento di testa che accompagnò l’azione, pur non avendo altri elementi a disposizione, ebbe la sensazione quasi immediata di non trovarsi in un luogo amichevole.
Il materasso su cui giaceva, lercio e gettato a caso in un punto qualsiasi di quella stanza spoglia e tetra, eliminò prontamente gli ultimi dubbi.
Si alzò in piedi. Aveva ancora i vestiti addosso: la camicetta non più bianca e pulita, comperata il giorno precedente in vista del provino che aveva sostenuto qualche ora prima del rapimento… (“Rapimento? Perché penso già a un rapimento?” – cercava coraggiosamente, nel suo cuore accelerato dalla paura, di sostenere l’ipotesi illusoria di un malore o chissà che…); la minigonna di pelle nera che usava nei momenti in cui aveva maggior bisogno di sentirsi femmina; i collant neri freschi di cellofan “…e già rotti!” – pronunciò a se stessa, dopo la valanga di pensieri iniziali, le prime parole con un filo di voce. Solo due cose potevano smuovere, anche durante i momenti più drammatici, il mutismo imbronciato tipicamente femminile di quella ragazza carina e in cerca di successo: un paio di calze prematuramente sfilate e le scarpe da abbinare ad un vestito appena acquistato…
Le calze sfilate e lacerate all’altezza delle ginocchia lievemente abrase, e il dolore avvertito durante il risveglio proveniente dagli arti inferiori, diedero alla ragazza la terribile certezza di essere stata trascinata dal suo rapitore, forse passando per una zona impervia del tragitto, andando dal luogo del rapimento al posto in cui si trovava, o di essere caduta sulle proprie ginocchia subito dopo “l’abbraccio soporifero” del maniaco.
Non aveva più le scarpe. Però… Ed era sparita anche la borsa larga griffata in cui riponeva solitamente il book con le sue foto in costume da bagno: compagno fedele di decine di provini, durante le pazienti esplorazioni tra gli uffici di casting in cerca della tanto agognata svolta nel mondo dello spettacolo… Per il resto, stava bene.
“Almeno non mi ha violentata!” – pensò, sentendosi ingenua per quel suo flebile tentativo di evidenziare a tutti i costi un aspetto positivo in quella situazione da incubo.
“O, meglio, ancora non mi ha violentata…!” – aggiunse rapidamente cercando di recuperare un doloroso ma necessario realismo che l’avrebbe messa in guardia, d’ora in poi, nei confronti di qualsiasi rumore sospetto, ambasciatore di cose terribili non ancora verificatesi.
Non rimase a lungo accanto al materasso.
L’angolo in alto, compreso tra due pareti e ciò che sembrava essere un soffitto, da cui proveniva il fascio di luce elettrica, attirava la sua curiosità così come un lampione cattura l’attenzione della falena nell’oscurità della notte. La ragazza avvicinandosi lentamente alla luce si accorse che, al di sotto del faretto che l’emetteva, vi era una telecamera collegata al muro, tramite un breve braccio metallico: una telecamera come quelle usate nelle banche per controllare i clienti o come quelle che, nelle strade delle città, al di fuori di edifici e uffici importanti, sorvegliano il traffico umano e veicolare esterno. Accanto all’ “occhio”, all’obiettivo, una piccola luce rossa accesa ne denunciava l’attività in tempo reale. Qualcuno, dunque, la stava osservando?
“Aiuto, c’è nessuno? Per carità, rispondete…!” – si lasciò sfuggire, inghiottendo l’impulso di piangere, quella richiesta liberatoria di soccorso, guardando l’obiettivo della telecamera come il devoto in chiesa osserva attentamente gli occhi del santo preferito in attesa di segni. 
Niente da fare: solo un quasi impercettibile spostamento della telecamera per meglio centrare il volto della ragazza rigato dalle lacrime che non aveva saputo più trattenere. E il morbido movimento della meccanica interna all’obiettivo quale prova di una zoomata in atto: non era la semplice registrazione di un sistema televisivo a circuito chiuso. Esisteva una mente esigente dietro quella continua ricerca dell’immagine perfetta: spostare, zoomare, centrare, cercare, inquadrare, inseguire… Un occhio insaziabile e silenzioso colmava, paradossalmente e tragicamente, il bisogno tanto ricercato di notorietà da parte della ragazza.
“In futuro ognuno avrà i suoi quindici minuti di celebrità!” – ricordò improvvisamente quella frase detta da un suo amico studioso di arte e di comunicazione, tempo addietro, durante una di quelle cene mondane con sedicenti produttori e amici di registi, dove ci si incontra con altre decine di persone fintamente rilassate ma interiormente agguerrite perché insoddisfatte, ognuna alla ricerca di qualcosa, ognuna con il proprio bagaglio di saggezza o di stupidità, di bellezza o di comicità da mettere in mostra con la speranza di essere notati da qualche talent scout di passaggio. Una citazione, più che una frase, che l’amico intellettuale, ormai già alla sesta coppa di champagne, aveva preso in prestito dal paniere di aforismi di un notissimo artista americano – di cui lei non ricordava mai il nome, forse perché troppo complicato da pronunciare o forse perché non gliene importava granché di saperlo – quello, insomma, tanto appassionato di bottiglie, scatole di cibo e di altre diavolerie che spacciava per arte e che si divertì a dipingere il ritratto multicolore della defunta Marilyn Monroe…!
Ma perché questi ricordi? Cosa le veniva in mente durante un momento così brutto? Stava impazzendo? O era un tentativo di spiegazione progettato dal suo inconscio? Doveva reagire: la realtà incombeva…
Spinta da un impeto risolutivo, più che altro dettato dalla disperazione, si avvicinò all’unico e ovvio punto d’uscita offerto da una veloce esplorazione visiva della stanza: la porta.
“Sarà sicuramente sbarrata!” – pensò troppo realisticamente, dal momento che aveva già cominciato ad accettare il suo nuovo ruolo di prigioniera.
Appoggiando la mano sulla maniglia e piegandola lentamente ma con forza, invece, constatò la cosa più improbabile che le potesse passare nella mente durante quei minuti di terrore: la porta si apriva e non era affatto chiusa a chiave!
Colta da una zaffata di improvviso ottimismo, rimase ulteriormente sorpresa dall’immensa luce che la travolse, quasi accecandola, proveniente da quello che sembrava a tutti gli effetti un corridoio. Lucido, illuminato a giorno da potenti neon e perfettamente pulito, il corridoio sembrava non avere nulla a che fare con la cupa stamberga in cui s’era risvegliata.
Il presunto maniaco si era inspiegabilmente distratto lasciando la porta aperta oppure quel corridoio apparteneva a uno sconosciuto e moderno studio televisivo e lei era soltanto la vittima (traumatizzata!) di una delle più feroci candid camera della storia della televisione? L’avvocato di famiglia e lei stessa, calcolò la ragazza, sarebbero diventati milionari, querelando per danni morali e fisici il produttore di quel pessimo scherzo mediatico. E mentre già pregustava l’ondata di soldi e di pubblicità conseguenti alla sadica bravata da mandare in onda il sabato sera, si avvicinò sull’uscio di quello che sembrava essere un altro ambiente abitabile della “casa” o di ciò che era. La porta di questa nuova stanza, però, era di metallo ed evidentemente dotata di un’apertura automatica, dal momento che non vedeva alcuna maniglia su cui mettere le mani. Infatti, all’avvicinarsi della ragazza, la porta scorrevole si aprì velocemente dinanzi a lei emettendo un sinistro sibilo meccanico. La stanza non era buia come l’altra da cui proveniva, ma l’odore nauseabondo che l’avvolse e la scena che le si presentò, la fecero ripiombare nel terrore più cupo, dopo il barlume di speranza prematuramente coltivato. Stava quasi per ritornare sui propri passi, quando la porta si chiuse inesorabilmente alle sue spalle con un tonfo metallico. L’anima della ragazza ormai in preda a conati psicosomatici di paura distillata, avrebbe voluto cacciar fuori tutto lo sdegno accumulato grazie ad un liberatorio grido di raggelante disperazione. Ma anche quell’unica arma le si bloccò inspiegabilmente in gola, mentre il petto le si sollevava con tanta forza, come a voler abbandonare il corpo. Nessun rumore seguì: solo il proprio battito cardiaco nel silenzio, amplificato con violenza nelle orecchie, le forniva il ritmo giusto per avanzare in quell’incubo adrenalinico.
Nell’ampia stanza, tra paradossali mobili seminuovi e disposti in modo disordinato, giaceva un gruppo indefinito di corpi umani, forse un paio di decine, irrimediabilmente senza vita, vestiti o seminudi, congelati in posizioni surreali e raccapriccianti dettate da un oscuro e malvagio regista invisibile, assetato di sangue reale.
Vittime cronologicamente differenti di una serie, difficile da ricostruire, di morti “naturali”, di omicidi e suicidi o, forse, di morti “richieste” quale ultima preghiera e rivolte all’indirizzo di chi aveva ancora la forza di infliggere un colpo sicuro e letale… Sanguinosi corto circuiti di gruppo, come foglie cadute da un albero in autunno: un giardiniere innominato verificava, con scientifica curiosità, le degenerazioni comportamentali, le ingenue speranze di chi credeva nella salvezza, gli scatti di ira liberatoria e devastante, le pietose scene di pentimento accanto ai feretri, i momenti in cui rivolgevano le improvvisate armi contro se stessi. Tutto documentato e registrato con la dovizia di particolari tipica di chi è presente ovunque.
La diversa decomposizione di ognuno di quei corpi era la prova evidente che non solo le morti erano avvenute in tempi differenti e non simultaneamente, ma che lo stesso arrivo dei vari “invitati” era stato centellinato in base a un premeditato e macabro progetto da un freddo sperimentatore senza ormai alcuna traccia di umana compassione.
Superato l’orribile impatto visivo generale, la ragazza semiparalizzata dal terrore, cominciò la non meno difficile esplorazione della stanza alla ricerca di un ospite ancora vivo a cui poter rivolgere la propria disperata richiesta di spiegazioni e di aiuto.
Anche questa stanza, come forse tutte le altre di quell’indefinito, maledetto e sconvolgente luogo di morte, era priva di finestre: solo vivaci e isteriche telecamere poste nei punti più alti e irraggiungibili. Eterni e instancabili occhi di feroci cani di una assurda guerra psicologica in perpetuo movimento angolare allo scopo di cogliere l’attimo fuggente della disperazione e della ferocia umane. Silenziose e onnipresenti testoline di polifemici scrutatori elettronici! E questo era il loro indisturbato terreno di caccia!
In realtà poteva benissimo trattarsi di una dimensione, più che di un luogo: la mancanza di uscite, di finestre, di qualsiasi passaggio praticabile con l’ambiente esterno, lo facevano assomigliare a un laboratorio isolato, sospeso nello spazio e nel tempo, per la sperimentazione degli orrori indotti. Per quel che la riguardava il posto poteva essere situato sottoterra o sulla luna; o in una fossa marina nelle profondità oceaniche… Non cambiava molto!
Specchi, specchi, specchi… Disseminati un po’ dappertutto e tutti collocati ad una stessa altezza media: quella del volto di una persona in posizione eretta mentre si specchia, riflettendo la morte imminente. Alcuni specchi erano ancora lindi, altri macchiati di sangue rappreso non più rosso, ma nerastro come la notte senza luna di un viandante perso in terra straniera. Impronte di mani insanguinate, rivoli di sangue e grumi misti a capelli in rilievo su alcuni di essi, testimoniavano i disperati e autolesionistici tentativi, da parte degli involontari abitanti, di stabilire un contatto, attraverso quei freddi e muti osservatori infrangibili, testimoni piatti della dannazione, con l’imperturbabile regia di quell’incubo tanto reale quanto assurdo. Un contatto per poter confessare in modo filiale e sinistro le proprie indicibili colpe in nome della beltà, le vezzeggiate vanità ostentate, le scaltre competizioni offerte sull’altare del successo, la facilità del vivere, la ricchezza che deriva dal corpo, i libri spavaldamente snobbati, la macchinosa furbizia insita nei giochi dell’immagine, la goliardica sicurezza nei confronti del mondo brutto, i calendari… Come in un’orrida sindrome di Stoccolma che precede l’oblio della morte!
E sì, perché questo era ciò che esigeva l’altra faccia dello specchio: la distruzione della personalità mediatica, prima ancora del corpo. Un pentimento registrato su cassetta e imposto con il terrore derivante da un insopportabile silenzio, interrotto solo da agghiaccianti grida di dolore!
Un contatto, però, a senso unico e sempre senza risposta, prima di rivolgere la propria violenta disperazione verso se stessi o verso i compagni di quel viaggio allucinante.  La ragazza non ebbe il coraggio di concentrarsi su tutte le scene plasticamente macabre che le si prospettavano dinanzi, mentre tremante calpestava laghi prosciugati di vomito e sangue lasciati lì da chi non aveva avuto più speranza se non nella indegna platealità di una naturale disperazione offerta al carceriere.
Il corpo emaciato di un ragazzo dalla barba incolta giaceva esanime su un divano di pelle gialla ornato da due ampie macchie di sangue solido e nero: su entrambe le braccia e all’altezza dei polsi, una serie inferocita di piccoli ma risoluti tagli ne aveva causato finalmente la morte per dissanguamento, dopo giorni, forse settimane, di digiuno forzato, a giudicare dal grado di deperimento di quella carcassa senza più vestiti e dignità.
Non molto lontano dal divano l’involucro scheletrico di quella che un tempo poteva essere identificata come donna, dalla capigliatura bionda ancora intatta ma imbrattata di sangue forse a causa di un colpo violento diretto alla testa, riproponeva in un fotogramma eterno, nonostante l’avanzato stato di decomposizione, l’ultima posizione della poveretta prima di spirare.
Sul tavolo posto al centro della stanza, invece, il corpo quasi “fresco” e in posizione prona di un’altra ragazza: sapeva di morte recente. Le si potevano leggere ancora le tipiche e sensuali fattezze della vita non assediate dalla crudele putrefazione, seppur già adombrate dalla violacea determinazione della morte. Era stata una bella ragazza e pareva quasi addormentata: scendendo, però, con lo sguardo lungo il corpo, nessun occhio avrebbe potuto evitare il cruento impatto con l’ampia zona mancante e insanguinata situata sul gluteo destro. La carne, in quel punto, era stata disordinatamente asportata durante l’ultimo e selvaggio tentativo di sopravvivenza da parte di uno degli ospiti ormai morti o ancora moribondi proprio grazie a quel boccone crudo e orrendo. La fame ugolinica aveva superato la contemplazione artistica nei confronti della bellezza anatomica di quella ragazza da copertina per trasformarsi nell’innaturale scatto felino di un disperato attore.
Aveva visto abbastanza. Ma prima di accasciarsi sul pavimento in preda a un incontenibile tremore isterico riuscì a lanciare un ultimo sguardo lungo quella grande stanza adibita a macelleria da proscenio. Altri corpi giacevano immobili come su un campo di battaglia abbandonato, in differenti condizioni e diversamente mutilati l’uno dall’altro a seconda di ciò che dettava il riscoperto estro brutale dei singoli carnefici. Su una delle pareti più vicine a lei, quasi un sarcastico segno lasciato in eredità agli sfortunati “invitati” da sadici coreografi, notò l’immagine incorniciata (l’unica della “casa”!) di un uomo sorridente con piccoli baffi neri e dalla corporatura mingherlina. Sotto l’immagine di quell’uomo, per lei sconosciuto, un’intestazione a caratteri grandi dichiarava: “Sir George Orwell (1903-1950)”.
La posizione fetale assunta dalla ragazza ammutolita e distesa sul freddo pavimento della stanza non le avrebbe permesso di esaminare ulteriormente la macabra scena, ma grazie a quella sua nuova visuale – con la guancia poggiata in terra in attesa di percepire l’arrivo di chissà chi – poté scorgere un altro corpo non molto lontano da lei e di cui non si era accorta prima, nascosto dietro il divano sul quale giaceva il ragazzo con i polsi tagliati. Cercò e trovò la forza morale per rialzarsi – aveva a suo vantaggio un’energia fisica non ancora intaccata dai lunghi giorni di digiuno – e avvicinandosi al nuovo corpo avvistato si accorse con profonda gioia mista a stupore che si trattava di un essere vivo. Era una giovane donna, profondamente debilitata e con uno sguardo perso nel vuoto, ma era… viva! Il flebile movimento della cassa toracica durante i rallentati atti respiratori e l’impercettibile tremolio delle labbra disidratate come se stesse pregando a bassa voce, erano i provvidenziali e miracolosi segnali di una vita ancora presente. La fiamma dell’esistenza stava per abbandonare quella donna, forse perché già sazia d’angoscia o non abbastanza disperata per staccare brandelli di carne da uno dei cadaveri. Stava morendo e la ragazza avrebbe fatto di tutto per tenerla in vita un altro minuto ancora: le avrebbe offerto la propria saliva o addirittura le proprie urine pur di dissetarla; avrebbe staccato lei stessa un frammento di carne dai morti, pur di provocare una nuova scintilla in quell’unica speranza sconosciuta.
“…cullami…!” – supplicò la donna con la tipica dolcezza che precede la morte liberatrice.
La ragazza stupita da quell’inattesa e insperata vitalità residua pose la testa della donna sulle proprie gambe e accarezzando i suoi capelli disadorni cominciò a cantare lievemente una dimenticata nenia che la madre le cantava durante le ormai lontane fanciullesche notti insonni.
Una goccia di tenerezza tutta per sé in quel mare di documentata pazzia!
Un dolce canto velato d’angoscia si levò dal piccolo rifugio ricavato dietro il divano e lontano dalle ottimali angolazioni di ripresa delle telecamere. Un ultimo momento privato e non condivisibile che avrebbe mandato in crisi i voraci occhi elettronici perennemente in cerca di eclatanti gesti di cannibalismo mediatico.
Camera 12… Camera 33… Camera 41…!
Introvabili fuggitive dal doloroso set…!
Per un attimo sembrava che il perimetro specchiato della casa dovesse infrangersi a causa della mostruosa rabbia dell’oscuro regista.
Il canto della nuova carne non bastava, c’era bisogno dell’immagine.
Il calderone audiovisivo delle emozioni, il “Circo degli Orrori”, era stato privato dell’ultimo ingrediente: un’inestimabile vittoria che non avrebbe evitato, certo, la morte lenta delle sopravvissute, ma che avrebbe interrotto, almeno fino al momento del loro ultimo respiro, la costante caccia di un macabro clamore da immortalare.


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