giovedì 1 settembre 2011

Susanna Daniele
LA NEVE

L’atrio della stazione Santa Maria Novella è un enorme corridoio di transito. Non è più pomeriggio e non è ancora sera, comunque è buio da ore.
I tabelloni elettronici di arrivi e partenze registrano ritardi su ritardi, nell’ordine di ore. Una voce femminile all’altoparlante si affanna a darne notizia senza spiegare il motivo. Sembra che la circolazione verso il nord sia bloccata all’altezza di Milano, ma anche i treni della linea tirrenica sembrano seguire una loro particolare e imperscrutabile concezione del tempo. Con le frecce rosse degli euro star naufraga la sensazione di continuità del flusso della vita.
Una fila di senza tetto si è appena sistemata sotto le tettoie esterne e interne. Su ogni cartone una serie di coperture composte da vari materiali nasconde un essere che cerca nel sonno almeno un po’ di calore. Da lontano somigliano a enormi carapaci.
Fra i corpi raggomitolati odori di sonno e rumori di respiri che si rispondono.
Nella piccola sala d’aspetto, che chiuderà a mezzanotte, c’è molto caldo. Si accalcano i viaggiatori in partenza, appena si libera un posto, subito viene occupato, anche da un bagaglio. Uno  vicino all’altra, giovani coppie di giapponesi sonnecchiano con le mani intrecciate, alla ricerca di un’intimità troppo timida per essere manifestata in pubblico.
Un uomo dorme con la testa all’indietro, russando forte. Ha l’odore di chi è in viaggio da giorni. 
Una ragazza è vestita completamente di nero a più strati di abiti sovrapposti, forse più che per ripararsi dal freddo per osservare i dettami della moda. Ha una valigia rigida rosso lacca che contrasta con il rigore funereo della sua faccia. Parla continuamente al cellulare per informare tutta la tribù dei suoi amici della tragedia che si sta abbattendo su di lei: perderà l’aereo per Londra. Tutti i presenti sono obbligati a vivere in diretta il suo dramma.
Si avvicina  alla porta una ragazza nera. Cerca qualcuno. Lancia all’interno uno sguardo sfuggente e se ne va.

La donna della valigia
In fondo alla saletta, nella parte chiusa dal vetro, una donna di età indefinibile, è imbacuccata in un grande cappotto sotto al quale si intuisce il seno pesante e i fianchi pieni. E’ bionda, di quei biondi che tendono al rossastro, il viso largo. Accanto a sé una valigia di un tipo ormai scomparso tanto è fuori moda.
Marrone con gli angoli ben squadrati, le chiusure a incastro e molte vecchie etichette attaccate qua e là. La donna la tiene vicina, quasi sopra al piede destro. La controlla continuamente.
La porta della sala d’attesa si apre di scatto portando dentro una ventata d’aria fredda. Una donna giovane e magrissima entra trascinandosi dietro due trolley che sembrano sproporzionati  per la sua gracilità. Si muove a scatti come se avesse le ginocchia rigide. Lo sguardo inquieto si posa qua e là, come a scegliere il posto dove sedersi. Non c’è scelta e si deve decidere per un posto sul fondo della saletta, vicino a altre due donne, quella con la valigia antiquata e la ragazza in partenza per Londra.

La donna del libro
Sistema i bagagli, poi si alza due volte, consulta il monitor con i treni in partenza e si rimette sconsolata a sedere.
Il termometro della farmacia nell’atrio della stazione segna +1°.
Un ragazzo entra e dice a voce alta “Sta nevicando!” eccitato dalla novità. Improvvisamente quella massa di persone semiaddormentate si risveglia all’unisono. Gli italiani escono in blocco trascinandosi dietro i bagagli, fanno qualche passo verso l’uscita della stazione e ritornano dentro.
I tedeschi si alzano rumorosamente, senza capire bene cosa stia succedendo. Fuori della sala d’aspetto i suoni si sono fatti ovattati.
La donna magrissima non è uscita; ha appena alzato la testa dal libro che sta leggendo. Sembra infastidita da quel diversivo che ha provocato scompiglio. Con una mano tiene un libro, con l’altra il cellulare. Non telefona, ma sembra aspettare una chiamata o un sms. Lascia cadere a terra il libro. La signora della valigia lo raccoglie e glielo porge.
“Oh, La musique d’une vie” legge traducendo il titolo direttamente in francese. Non sapevo che fosse stato pubblicato in Italia. Le piace?”
“Ma, non so, ne ho letto ancora poco” balbetta per lo stupore di quella domanda. “Makine racconta una notte in una stazione degli Urali paralizzata da una tormenta di neve, piena di passeggeri in attesa di un treno verso l’Europa.”

La donna del libro

Non l’avevo notata, avevo altro a cui pensare. La donna, con quella strana valigia, sembrava venire fuori direttamente da un’immagine degli anni 50. Dopo mi sono vergognata a pensarci, ma lì per lì ho pensato che fosse una barbona che chiedeva qualcosa. D’istinto ho toccato la borsa per sentire se era chiusa bene.
Aveva uno strano sorriso, triste e evanescente al tempo stesso. Non era italiana, da noi nessuna donna andrebbe in giro con abiti così fuori moda. Mi sono stupita dell’attenzione verso il libro che avevo distrattamente comprato all’ultimo momento, con l’attenzione alle dimensioni. Dell’autore non sapevo niente. Chi era questo russo che destava tanto interesse nella mia vicina nella sala di attesa?
Si mise a parlare con la voce calma e suadente di chi racconta storie ai bambini per farli dormire. Diceva che la stazione di ogni città è un buon punto di osservazione dell’essenza dell’umanità. Siamo tutti in attesa: di qualcuno che deve arrivare, di un altro luogo dove ricominciare. Tappe di un viaggio appena più grande.
Avevo iniziato ad ascoltarla per pura cortesia, poi i suoi discorsi avevano catturato l‘attenzione. Per un po’ di tempo ero riuscita a dimenticare il motivo di quel viaggio e la telefonata che aspettavo spasmodicamente. La donna parlava di calli e campielli di una Venezia magica. Aveva il tono di chi manca da tanti anni e ricorda una città filtrata attraverso tutto il fascino del ricordo.
Mi dovevo essere assopita perché a un certo punto ho sentito una mano leggera sulla spalla che mi scuoteva.
“Sta arrivando il treno per il Brennero; se è quello che aspetta, si affretti: il binario è già pieno“. Corsi al binario trascinandomi le mie valigie senza neanche ringraziarla.
Aveva ragione, il treno era già pieno e molti tentavano di salire spingendo con ogni mezzo. Riuscii a farmi aiutare a tirare su i trolley ma non evitai le male parole di quelli che erano nel corridoio e che si dovevano spostare per farmi passare. Quando finalmente arrivai al mio posto lo trovai occupato. La signora si rifiutò di alzarsi dicendo che me la rifacessi con le ferrovie. I suoi vicini girarono la testa dall’altra parte e nessuno si offrì di cedermi il posto, anche soltanto per un tratto del viaggio. Non ce l’avrei fatta a passare ore in piedi e già stavo pensando di scendere e aspettare il prossimo quando mi sentii chiamare. “Venga qua.” Riconobbi la voce della mia vicina nella sala d’aspetto. Per la seconda volta in poco tempo mi sono sentita maleducata di fronte alla gentilezza di quella sconosciuta.
Ci sistemammo in uno spazio angusto fra due carrozze, ma almeno non  era un punto di passaggio né era davanti alla toilette. Appoggiai la schiena a una valigia e mi sedetti sull‘altra. La signora invece con il cappotto fece una specie di puff e ci si  sedette sopra.
Potevamo vedere i cristalli di neve che lambivano il vetro del finestrino.

La donna della valigia

Era poca la neve che stava cadendo rispetto a quella che avevo visto per tanti anni durante l‘inverno, eppure tutte quelle persone ne sembravano affascinate, quasi eccitate. Chi non sonnecchiava guardava fuori dal finestrino. E‘ l‘Italia, il paese del sole per definizione.
La signora accanto a me sembra sofferente. E’ così magra che le ossa sembrano rientrarle. La sua sofferenza più grande è interiore, come se un grumo che le impedisce di respirare.
Il cellulare è sepolto nella tasca. Ha smesso di aspettare. Ha gli occhi chiusi ma non dorme. La sento sospirare. Non posso fare a meno di aprire la mia valigia. Per prima cosa tiro fuori le foto, poi rileggo per l’ennesima volta la sentenza del tribunale che condanna i soldati a una pena ridicola, da ultimo l’articolo del giornale del 2003 con l’inaugurazione del monumento alla memoria di Chris. La signora ha aperto gli occhi e osserva ma non chiede niente.

La donna del libro

Mi chiedo ancora se ho rimpianti nel lasciarmi alle spalle anni di vita con Stefano. No, nessuno, anche se i conti non tornano mai, l’unica certezza è la produzione di dolore in noi stessi e negli altri. Difficile dosare la sofferenza, ci vorrebbe la bilancia con cui gli antichi egizi pesavano il cuore del defunto per valutarne la leggerezza. Ho sofferto a lungo l’indifferenza, peggiore del disamore. Analizzo la mia angoscia: non so cosa troverò alla fine di questo viaggio. Hans non mi ha telefonato né mandato un messaggio. Ci sarà alla stazione di Bolzano ad aspettarmi? Mi sembra di sentire sulle guance la ruvidezza della sua giacca e il calore delle sue braccia. Purtroppo ho ancora voglia di amore. Ma cosa ha questa strana donna nella valigia? E’ quasi vuota. Tira fuori documenti in tedesco, vecchie foto. Non avrà mica qualche problema psichico!

La donna della valigia

“Dove è diretta?”
“A Bolzano. Lei?”
“Proseguo per Monaco e là cambio per Berlino”
 “Un viaggio molto lungo. Quando arriverà?”
“Il 5, in tempo per andare al cimitero dove è sepolto Chris per deporre un   libro di Brecht che lui amava molto. Lascerò una rosa sul monumento che lo ricorda. Se vuole le racconto la storia mia e di Chris.”
Vede questa foto? Fu scattata da un cliente fuori dal ristorante dove lavoravamo. Siamo usciti con il grembiule da camerieri nonostante fosse un inverno rigido.
Questa invece l‘ha fatta Margaretha, la mia compagna di stanza, una domenica di primavera. Chris fa lo scemo davanti all’obiettivo. E’ la sua foto più buffa, uno dei pochi ricordi che ancora mi fanno sorridere. Diventò amico di Christian, un ragazzo che faceva il cameriere insieme a noi. Avevano le stesse idee: non fare il militare per il regime, andare all’Ovest.
In questa foto ci sono tutti e due. I due Ci, come li chiamavo io. Sono davanti alla chiesa di St. Thomas a Lipsia.
Ripenso sempre alla neve di quella notte in cui Chris mi disse che voleva passare il Muro, che dovevo stare tranquilla perché era venuto il primo ministro svedese e che i soldati non avrebbero sparato. “Siamo a un passo dalla libertà” mi disse. Invece era a un passo dalla sua fine. Le guardie di frontiera gli spararono e morì nel corridoio fra il muro interno e quello esterno. 
Chris e Christian aspettarono che chiudesse il ristorante, poi si avviarono  verso gli orticelli privati Harmonie sulla riva del canale. I vopos intimarono l’alt e poi spararono, per uccidere.
Morì sulla striscia fra il muro esterno e quello interno. Quando corsi là l’avevano già portati via.  La neve non era più bianca. C’erano rimaste le impronte degli stivali dei soldati e il sangue dei due C.”
Questo è il monumento che il governo ha eretto qualche anno fa. E’ orribile, ma almeno è il segno che la grande Storia è passata anche da lì.
Lacrime rigano il viso magro della signora, non so se piange sulla sua o sulla mia storia.

“Una ferita che non ha mai smesso di sanguinare… non ha avuto una sua vita, dopo?”
“Si, certo. Mi sono sposata, ho avuto dei figli, ho divorziato. Come tutti. Ma la storia di Chris non l’ho mai dimenticata, non per motivi sentimentali, come potrebbe pensare lei, ma perché quella notte ho sentito l’alito della Storia vicino a me e io non sono più stata la stessa. Un alito glaciale e bello al tempo stesso, bello come i cristalli di neve. E’ un viaggio nella Berlino della mia giovinezza. Passerò a zig zag in quelle zone dove c’era il muro, giocando a passare dall’est all’ovest, come i bambini che saltellano su una gamba o su un’altra. Poi vedrò tutto quello che è cambiato o sta cambiando. Tutto scorre e sta a noi donne preservare la memoria di quello che è stato. Gli uomini fanno e disfanno, le donne si soffermano a raccogliere i ricordi che custodiranno fino in fondo.”

A Bolzano la donna con il libro si preparò a scendere. Si sentiva più leggera di quando era partita. Si stava riappropriando della propria vita.
Se non avesse trovato Hans ad aspettarla alla stazione si sarebbe concessa un albergo nel centro e poi un giro del centro, senza fretta.

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