lunedì 3 ottobre 2011

WIF4 / E-ZINE DI IF / OTTOBRE 2011


IN QUESTO NUMERO DI WIF:


 
* Editoriale / LA LETTERATURA DISEGNATA





Editoriale WIF4 / OTTOBRE 2011
LA LETTERATURA DISEGNATA

Quarto numero di WIF. L'e-zine di IF - come l'abbiamo chiamata, da "electonic fanzine" (in ricordo dei favolosi anni Sessanta) - sta ottenendo un discreto successo ed è visitata dai lettori soprattutto al momento della sua uscita in rete, ai primi di ogni mese. Questa volta presentiamo in anteprima il promesso thriller di Douglas Preston e Lincoln Child, "Andando a pesca", dove compare per la prima volta da solo, senza l'ineffabile Pendergast, il tenente Vincent D'Agosta. Una storia da non perdere, che sarà pubblicata integralmente sul prossimo numero 8 di IF, dedicato ai fumetti.
Il numero di IF che è in preparazione raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Venezia sul tema della letteratura disegnata, assieme ad altri interventi dei nostri collaboratori, per iniziativa di Alessandro Scarsella, docente presso l'Università Cà Foscari.
Completano il numero l'intervista a Giuseppe Lippi, editor storico di "Urania", racconti di Roberto Barbolini, Piero Giorgi, Bruce McAllister, Fernando Sorrentino. E poi le rassegne, le recensioni, i film, e un omaggio a Carlo Peroni, ottantadue anni portati (bene) con la matita.

In attesa del n. 8 di IF, ecco il suo supplemento digitale. IF e WIF continuano assieme. Buona lettura!

PRESTON & CHILD: ANDANDO A PESCA

Un racconto inedito in Italia di Douglas Preston e Lincoln Child, dove compare per la prima volta da solo il tenente Vincent D'Agosta del NYPD. In esclusiva sul n. 8 di IF, di prossima pubblicazione.



La Ford Taurus sibilò lungo la strada scivolosa, raggiunse la cima della collina ed emerse dai boschi. Un improvviso panorama di fattorie e campi verdi si aprì là sotto, un grappolo di case bianche e un campanile lungo un fiume scuro.
«Il limite di velocità è di 45», disse Woffler, la voce tesa.
«Non fartela addosso.» replicò Perrotta «Sono un guidatore nato.» Lanciò un’occhiata al falegname: la faccia dell’uomo era bianca, e l’ambiguo orecchino che portava all’orecchio sinistro – un anello d’oro con una pietra rossa – tremava quasi per l’agitazione. Woffler e il suo piagnucolare cominciavano a dargli sui nervi.
«Non sono preoccupato per la tua guida», disse Woffler. «Sono preoccupato perché potrebbero fermarci. Hai presente la polizia?» Lui annuì significativo alla borsa di velluto appoggiata sul sedile tra loro.
«Ok, ok.» Perotta rallentò a cinquanta, mentre l’auto scendeva dalla collina verso la città. «Hai bisogno di una pausa vasino, amico?»
«Potrei prendere qualcosa da mangiare. È ora di cena.»
C’era una tavola calda proprio alla periferia della città, in quella che sembrava una stazione di servizio convertita. Sei camioncini pick-up fermi nel parcheggio sterrato.
«Benvenuti a Buttcrack, New Hampshire.» fece Perotta. Scesero dalla macchina e si avvicinarono al locale. Perotta si fermò sulla soglia, osservando la clientela.
«Li crescono belli grossi qui, vero?» disse. «O pensi che si tratti di consanguineità?»
Presero un tavolo vicino alla finestra, da dove potevano tenere d’occhio l’auto. La cameriera si avvicinò ondeggiante. «Cosa posso darvi, gente?» disse, sorridendo.
«Che ne diresti del menu?» disse Perotta.
Il sorriso scomparve. Lei indicò verso il muro «È tutto lì.»
Perotta esaminò il tabellone. «Portami un cheeseburger, patatine fritte e un piatto di cipolle alla griglia. Fallo al sangue. E caffè.»
«Lo stesso per me», disse Woffler. «Tranne che prenderò il mio hamburger ben cotto. E niente cipolle.»
La cameriera si ritirò ancheggiando e Perotta la seguì con lo sguardo. Mentre passava davanti a un tavolo più lontano, vide un uomo con dei tatuaggi e una canotta che lo fissava. Era uno grande e grosso, gonfiato. Qualcosa in lui faceva pensare a Perotta la prigione. Prese in considerazione il sacco di merda squadrandolo dall’alto in basso, poi decise che non era il caso. E neanche il momento. Si voltò di nuovo verso il suo partner.
«L’abbiamo fatto, Woffler. – disse a bassa voce. – Ci ha fatto impazzire.»
«Non abbiamo ancora fatto nulla. – rispose Woffler. – Non parlarne qui. E non chiamarmi per nome.»
«Chi ci sente? Comunque, siamo a centinaia di chilometri da New York – e nessuno si è ancora accorto della sparizione.»
«Non lo sai.»
Erano seduti in silenzio. L’uomo con i tatuaggi si accese una sigaretta e nessuno gli disse di spegnerla. Dopo pochi minuti la cameriera uscì con gli hamburger e li fece scivolare sul tavolo.
Perotta controllò, come faceva sempre. «Avevo detto al sangue. A-L S-A-N-G-U-E. Questo è ben cotto.»
Senza una parola la cameriera riprese il suo piatto e lo riportò in cucina. Perotta si accorse che il tipo con i tatuaggi lo fissava.
Il piatto tornò fuori e Perotta controllò di nuovo. Non ancora abbastanza al sangue. Cominciò a fare dei segnali alla cameriera, ma Woffler lo fermò.
«Vuoi mangiare il tuo hamburger e farla finita?»
«Ma non è al sangue.»
Woffler si sporse in avanti. «Vuoi proprio fare una sceneggiata adesso, in maniera che tutti si ricordino di noi?»
Perotta ci pensò un attimo e decise che Woffler poteva aver ragione. Mangiò l’hamburger in silenzio, bevve il caffè. Aveva fame. Erano stati alla guida da prima dell’alba, fermandosi solo per far benzina e qualche caramella.
Pagarono, e Perrotta non diede la mancia alla cameriera. Era il minimo che poteva fare, per una questione di principio. Cosa c’era di così difficile nel fare un hamburger al sangue?
Quando furono in macchina, l’uomo tatuato emerse dalla tavola calda e si avvicinò. Allungò un braccio attraverso il finestrino aperto di Perotta.
«Che diavolo vuoi?» chiese Perotta.
L’uomo sorrise. Da vicino, Perrotta poteva vedere che il tipo aveva una vecchia cicatrice da tracheotomia a destra, sotto il pomo d’Adamo. I suoi denti erano del colore delle urine.
«Solo augurarvi buon viaggio. E offrirvi un consiglio.» Parlava gentilmente, rotolando uno stuzzicadenti dentro la bocca.
«E quale consiglio sarebbe?»
«Non tornate un’altra volta nella nostra città. Mai.»
«Non c’è problema. Potete tenervi la vostra Shitville, o comunque si voglia chiamare questa discarica.»
Schiacciò il piede sull’acceleratore, filando fuori dal parcheggio e riempiendo l’uomo di polvere e ghiaia. Guardò nello specchietto retrovisore: si stava spazzando via la polvere dalle braccia, ma non sembrava fare una mossa per seguirli.

(à suivre...)


Torna alla Home Page di WIF4

domenica 2 ottobre 2011

COMPLIMENTI, DOTTOR GOEBBELS

di Piero Prosperi


Il Reichsprogandaleiter Joseph Goebbels arrivò in ritardo, a riunione già iniziata. Si accostò zoppicando al grande tavolo mormorando una frase di scusa. Il Führer girò appena la testa verso di lui, poi tornò a concentrarsi sulle parole di Himmler. Questi sbuffò brevemente, per far capire con chiarezza quanto l’arrivo intempestivo di colui che considerava il suo maggior ri­vale all’interno del Gabinetto lo avesse disturbato, poi riprese: “A Ravensbruck, Saschenhausen, Niederhagen e Lichtenberg la situazione non può definirsi purtroppo altrettanto positiva. L’attuazione dei programmi procede, in effetti, in leggero ritar­do rispetto a Mathausen, Dachau, Auschwitz e anche rispetto a Bu­chenwald. Ma siamo senz’altro in grado di recuperare il tempo perduto. In definitiva, si può aver fiducia che i piani per la ‘soluzione finale’ del problema ebraico saranno nel complesso ri­spettati.”
Hitler annuì a lungo, gravemente. Fece correre lo sguardo all’intorno in senso circolare, sui sei volti che si riflettevano sul ripiano lucido di mogano. Si schiarì la voce prima di parla­re. “Naturalmente, signori” disse con deliberata lentezza “mi a­spetto che l’intera operazione rimanga rigorosamente segreta, e che nulla di quanto avviene all’interno dei Konzentrationlager arrivi alle orecchie della opinione pubblica, men che meno di quella straniera.”
I presenti annuirono. Non tutti. Ci fu un momento di silen­zio, prima che le parole di Goebbels cadessero piatte e sonore come sassi in uno stagno. “Mi permetto, Führer, di non essere d’accordo.”
    Senza rendersene conto Himmler si trovò a digrignare piano i denti. Ecco che stavano per ascoltare una nuova brillante idea del Ministro per la Propaganda. Quel piccolo, storpio, claudican­te intellettuale segnato per sempre nel fisico dalla paralisi in­fantile si permetteva di contraddire il Führer in pieno Gabinet­to! Fu lì lì per replicare con una frase sprezzante, una sorta di staffilata, ma poi decise che non ne sapeva abbastanza per con­trobattere. Così, al pari degli altri, si rassegnò ad ascoltare le parole di Goebbels ripromettendosi di intervenire più tardi.

(à suivre...)

(Complimenti, dottor Goebbels è stato pubblicato integralmente nel n. 3 di IF/Ucronia del Marzo 1010)


Torna alla Home Page di WIF4

NOTTURNO ALIENO

INTRODUZIONE DI GIAN FILIPPO PIZZO

Questa antologia ha origine da una constatazione tutto sommato abbastanza banale: che il noir è in questo momento il genere preferito dai lettori, e non solo quelli italiani. Di più: che proprio gli scrittori italiani sono sulla cresta dell’onda anche all’estero, dove – a dar retta a qualche articolo apparso sulla stampa quotidiana – avrebbero superato nelle preferenze anche i troppo osannati (e sopravvalutati) autori scandinavi, Stieg Lersson in testa. Poiché io mi occupo essenzialmente di fantascienza, ecco l’idea: abbinare il noir con l’ambientazione classica della science fiction. Ma... un momento: nella sua prefazione Stefano Di Marino rivendica (giustamente) il fatto di occuparsi di “fantanoir” da vari anni; allora, niente di nuovo sotto il sole? Non è proprio così. Quando si opera una commistione di generi non è che l’apporto sia proprio paritario tra i generi coinvolti, piuttosto si ha l’inserimento di qualche gene di uno nell’intera catena del DNA dell’altro (per usare una terminologia scientifica ormai comprensibile a tutti). Così Stefano Di Marino – meglio noto nell’ambiente come Stephen Gunn – scrive essenzialmente storie di azione di ambientazione poliziesca o spionistica condendole di elementi fantascientifici, orrorifici o d’altre forme narrative.
Quello che io volevo ottenere è l’esatto contrario: inserire l’atmosfera noir all’interno della fantascienza. Anche questa una operazione già tentata e anche con successo, però in una sola maniera, quella di spostare una vicenda sostanzialmente poliziesca in un futuro neanche troppo remoto, comunque ben descritto in quanto a struttura sociale. Il paradigma è dato dal celeberrimo film di Ridley Scott Blade Runner (molto meno dal romanzo ispiratore della pellicola, Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick), imitato poi da altre produzioni cinematografiche e da diversi romanzi, tra i quali possiamo segnalare, restando in ambito italiano, quelli di Dario Tonani (Infect@, L’algoritmo bianco, Toxic@), Irregolare di Vincenzo Bosica o Infezione genomica di Giovanni Burgio. Perché il noir è un genere essenzialmente metropolitano e contemporaneo che trae la sua ragion d’essere dal degrado fisco e morale che sta attraversando la nostra civiltà occidentale, e dunque è anche abbastanza facile ambientare una storia in una metropoli del futuro – che sia Los Angeles o la Milano di Tonani poco importa – dove questo degrado verosimilmente sarà ancora maggiore.
E dunque la “sfida” che ho lanciato ai vari autori che ho contattato è stata proprio questa: scrivere dei racconti che fossero in primo luogo di fantascienza  (questa l’etichetta che serve ai librai, come dice Di Marino) con la sua tipica ambientazione in un’astronave, un pianeta lontano, un viaggio nel tempo, un futuro abbastanza lontano da non assomigliare troppo al nostro presente, oppure anche contemporanea ma in cui l’idea di partenza fosse tipicamente fantascientifica; che la situazione descritta fosse proprio noir, con il suo corredo di angoscia, paura, pericolo e le varie sensazioni che si accavallano nei protagonisti di queste storie; che non si riproponessero – salvo eccezioni – ambientazioni urbane, né futuribili né ricorrendo al trucco di spostare un hard boiled su un altro pianeta.
Non ho voluto, apposta, dare una definizione di noir, ben sapendo che questo termine ormai è diventato ambiguo e per qualcuno assorbe sia l’hard boiled degli anni Trenta e Quaranta (americani) che il poliziesco d’indagine (alla Nero Wolfe o alla Commissario Montalbano, per capirci). Non sono molto d’accordo con questa soluzione e preferisco considerare il noir come uno scavo nella psicologia di personaggi o negativi (criminali) oppure vittime di situazioni drammatiche più forti di loro, ma sapevo benissimo che non potevo imporre questo unico modello. Ho dunque lasciato liberi gli autori, a patto che rispettassero le altre condizioni: mi interessava soprattutto che l’atmosfera fosse quella richiesta e che fosse calata all’interno della science fiction più tradizionale. Così le storie qui presenti attraversano tutto l’arco delle possibilità sia fantascientifiche che del giallo, dal viaggio nel tempo alla spy-story, dall’utopia negativa al poliziesco più classico, dall’avventura spaziale al “nero”, dagli universi paralleli all’azione adrenalinica.
Tutto sommato, credo che l’operazione sia perfettamente riuscita.

NOTTURNO ALIENO, a cura di G. F. Pizzo, edito da Bietti, Milano, pp. 490, € 22,00
è in libreria da ottobre 2011.


Torna alla Home Page di WIF4

PAROLE DI UN MORTO

di Federigo Tozzi

Hanno già messo i chiodi sopra la mia cassa. Il mio viso è disfatto; la mia bocca gonfia, le mani a pezzi; e gli anelli d'oro, che m'hanno lasciato alle dita, entrano nelle carne del ventre. Per quanto il mio udito sia ingrossato, ed io ci senta in un modo come se avessi gli orecchi chiusi con la bambagia, odo suonare la musica; come, dianzi, piangere.
Mi dispiace lasciare così la casa, per sempre: so che non ci tornerò più; e oggi dev'essere una bella giornata limpida, tutta odorosa; e la gente allegra. Dinanzi alla mia casa devono ancora passare gli innamorati, fermandosi a guardare le mie rose che Celestina annaffia tutti i giorni.
Che importa se io non ci sono più? Tutto è come prima; e mio figlio è felice con Lorenza.
Avrò tempo di pensare a tutto prima di essere messo sotto terra? Perché ho paura di sentire la mancanza dei miei pensieri, la mancanza della mia anima; e chi sa per quanto tempo non potrei né meno piangere! Sapere che potrei piangere! Ma non mette ormai conto parlare di me, e né meno del male che mi ha fatto morire.
Riconosco bene la strada, per dove mi portano verso il cimitero? Ora mi par che siamo su per quella che sale un poco, e dianzi abbiamo voltato: ora, forse, siamo fermi. Chi sa perché?
Ma di ricordi non riesco ad averne. So di avere vissuto, ma lo so soltanto teoricamente. Piuttosto è come se la febbre della malattia mi durasse ancora; e più forte. Mi ha fatto doventare cieco. Ma ecco che ora riconosco il clarinetto! Il motivo lo fa lui.
Sembra una cosa inventata che io abbia vissuto: una parola soltanto. E non capisco perché io non esista né meno come il suono di quel clarinetto.
I nomi dei miei figli e della mia nuora mi fanno lo stesso effetto di quando io parlavo dei nomi dei continenti lontani; e non so né meno più quel che debbano significare.
Il mio non lo ricordo. Ho soltanto la sensazione di che cos'è un figlio o una nuora. E pure essi devono essere dietro alla mia casa; e, certo, piangono.
Ma dove andiamo così, e io non posso tornare a casa mia?
Ora mi par d'esser preso. Mi portano in chiesa: lo sento, perché salgono le scale. Mi mettono nel mezzo. Odo cantare e pregare. Se riescissi a vedere almeno uno dei lumi! Ma nel mio cervello la luce non è che una tinta gialla, che cola.
Ma non c'è niente che muore con me: sarebbe una consolazione, la sola amicizia che sono in grado di comprendere. Vorrei che i ceri si consumassero tutti. Anche le ghirlande resteranno fresche fino a domani, e sono troppo distanti.
Ecco la voce del prete. Mi riprendono. Bisognerebbe che mi portassero più piano. Fermiamoci, anzi. Devo, prima, capire. Devo, prima, trovare. So che devo trovare. Finché non avrò trovato, la mia morte non sarà perfetta. I morti non si lasciano così.
La mia anima, però, deve essere vicina a Dio. Questi non sono che frammenti dei miei sensi, che conservano ancora l'abitudine, presa con l'anima, della loro attività. Ma non è vero ch'io non mi ricordo di niente. Vedo un ragazzo che cade in avanti, in un campo: le sue gambe grasse e quasi rosse; un giovinotto che s'innamora e sposa; una giovine leggiadra con i riccioli neri; i miei figli Celestina e Luigi, e la mia nuora.
Quando passava una folata di vento, la rugiada sgocciolava dagli alberi, e portava il canto degli uccelli più lontano. Il mio cuore respirava in fretta. Avevo mattinate in cui pareva che la mia esistenza fosse vasta come tutte le cose insieme attorno a me. Anzi, le cose vivevano con una intensità alacre che non hanno, nella realtà delle mie percezioni che restava ben separata e distinta da quella di se stesse. Ma io ero contento, come quando si sente che si può amare.
Mia moglie era giovine e bella, e tutti i giorni le volevo più bene: m'ero così abituato a lei, che cercavo nei suoi occhi la sensazione della mia esistenza. L'amavo sempre più fanaticamente, al punto che dimenticavo me stesso per lei. Ed io non ne ricevevo, in compenso, che l'assoluta certezza della sua fedeltà.
Molte volte, da mezzo i campi, sono tornato di corsa, a casa, soltanto per vederla; perché le mie sensazioni, restato solo, non volevo averle.
Ella m'era piaciuta immensamente; ed ora non vedevo più la sua bellezza; ma volevo che il suo spirito fosse sempre insieme con il mio. Parlandole, la mia voce mi pareva la sua, in certe modulazioni e in certi toni. Le cose che io dicevo mi parevano pensate anche da lei; e non avrei mai creduto che io smettessi di vivere mentr'ella vive ancora e respira. La credevo così mia che io avrei dovuto vivere, soltanto per questa ragione, più di lei. Alla fine anche il suo nome, a forza di pronunciarlo più spontaneamente di qualunque altra parola, dava un senso a tutto quel che pensavo con lei. Aveva pochi capelli, perché gliene cadevano tutti i giorni; ma così neri che m'hanno fatto sempre meravigliare. I suoi occhi, accesi sempre dalla stessa luce lionata, che al sole diveniva più chiara, quasi gialla, mi davano le vertigini; e bastava che io glieli guardassi un poco perché tutto fremente la stringessi al mio petto, baciandole la bocca senza saziarmi mai; perché il fascino della sua bocca restava sempre lo stesso.
Ma ella, baciandomi, pareva che mi obbedisse. Ed era questa sua obbedienza affettuosa, che io chiedevo a lei.
Io non potevo vivere se non dove fosse lei.
Ora questi ricordi, che già sembrano di tanti anni, sono come un sogno che mi segue. E capisco bene la differenza che c'è tra essi e lei; che forse è in una carrozza dietro la mia bara.
Nei giorni di febbre, anche il mio amore si faceva più forte, sentendo che sopravviveva a me. E allora mi volgevo a lui, perché io potessi guarire. La febbre mi dava sensazioni deliziose quantunque interiori; e mi sforzavo di sollevare la testa dai cuscini, per afferrarmi a loro; cercando di sostituirle del tutto alla mia trista e sciocca camera; dov'ero chiuso. Ma io avevo paura, per un grande pudore, che mia moglie se n'accorgesse; e le nascondevo queste impazienze violente; socchiudendo gli occhi quando mi guardava; perché certo nei miei occhi ella doveva vedere qualche cosa, quasi insolita, che non era un effetto della debolezza e della malattia. Ella doveva vedere la mia anima folle, e non capiva!
Ma, quando mi sono accorto che dovevo morire, la mia mente ha preso una lucidità che non aveva mai avuta. Tutta l'intelligenza, con un equilibrio meraviglioso, di cui io stesso potevo constatare l'esattezza, era a mia disposizione. Per quanto non potessi muovere né la testa né le mani, io mi sentivo capace di qualunque calcolo e di giudicare qualunque cosa, non solo mia, ma anche degli altri. Il suono della mia voce, che mi sforzavo in vano di udire, doveva essere certo cambiato. Ma non m'importava, perché sentivo che la giustezza dei miei pensieri sorpassava quel che gli altri si aspettavano da me.
E mi occupai della famiglia e del patrimonio.
Quando il sacerdote venne a comunicarmi, io ero così automaticamente disposto a dire ogni verità, che io mi sarei meravigliato che non me l'avessero domandata. Trovai naturale che il sacerdote ponesse l'ostia tra le mie labbra: la cosa più naturale che avessi mai osservata durante tutta la mia esistenza.
Dopo poche ore cominciai a non distinguere più, quantunque i miei occhi non fossero annebbiati. Ma io sentivo che la mia anima acquistava sempre di più la sua presenza, che mi pareva solida. Udivo parlarmi, ma non m'importava più di capire. Alla fine ho perso la coscienza, come quando ci si addormenta. Ed ora mi passano come dinanzi agli occhi queste cose sole.
Ecco le prime palate di terra: le lacrime mi riducono il viso in poltiglia.

Parole di un morto fu pubblicato postumo nel 1921 in Cronache d’attualità e poi ristampato nella raccolta Le novelle, a cura di G. Tozzi, Vallecchi, 1963.


Torna alla Home Page di WIF4

IO SONO CERVANTES: L'INCIPIT

Disegno di Alberto Corsi
Sarà in libreria da Novembre il nuovo romanzo di Carlo Bordoni, IO SONO CERVANTES, edito da Bietti. In esclusiva pubblichiamo l'incipit: 

  
Mi chiamo Madeleine. Sono la pronipote di Pierre Menard. Sì, avete capito bene: l’autore del Chisciotte. Proprio lui. Ricordato da Borges e dimenticato dal mondo. Un’ingiustizia a cui vorrei porre rimedio, dopo tanti anni dalla sua morte. Proverò a raccontarvi la sua storia a partire da un anno cruciale, il 1934. Lo farò documenti alla mano, con le sue lettere, i suoi scritti, i suoi libri, quel poco che è rimasto del suo capolavoro e il suo diario.
Certo, Pierre Menard teneva un diario. Ho trovato il quadernetto nero in uno scatolone tra riviste, vecchi ritagli di giornale, fascicoli a stampa intrisi d’umidità. Con quella sua calligrafia minuta, così fitta, non è facile capire tutto. Ma mi ha chiarito molte cose. Più che altro mi è servito per rendermi conto delle sofferenze che deve aver patito negli ultimi anni. Una lettera che ti capita fra le mani, uno sfogo affidato a una pagina di diario… Finisce che la persona viene fuori, con i suoi difetti e le sue qualità.
Ora vivo qui, a Nîmes, nella sua casa. La preservo dall’incuria del tempo e degli uomini. Mi ha sempre affascinato la sua casa, disordinata e antica. Piena di libri e di giocattoli di latta, di cui faceva collezione. Ne era gelosissimo, mi permetteva a malapena di toccarli, ma poi mi ricordava di rimetterli a posto, appena fi­nito. Ché poi non li ritrovava più. Era meticoloso, come ogni collezionista. E aveva la scusa che potessi farmi male, col metallo sottile di cui erano fatti.
Poi c’erano i libri. Quelli, invece, erano mescolati, appoggiati da ogni parte, la­sciati aperti a metà, con dentro altri fogli piegati a far da segnalibro, tutti in disor­dine. Ecco. Guardate qui quanti libri! Ci sono ancora tutti, non me la sono sentita di sbarazzarmene. Lo diceva spesso, scherzando, che i libri erano il suo unico amore. La sua “libridine”. L’ansia di possederne moltissimi non gli dava tregua. Comprava e accumulava libri, non era mai sazio di leggere. Gli amici lo prendevano in giro, ma lui non se ne preoccupava. La decisione di andare in pensione appena possibile, all’indomani del compimento dei sessant’anni, l’aveva presa proprio per quel motivo: dedicarsi esclusivamente ai suoi studi. Era capace di isolarsi in casa per intere settimane, senza mai uscire, immerso nella lettura. Andavamo a trovarlo periodicamente (stavamo ad Aigues Mortes, allora) per assicurarci che stesse bene e non gli mancasse niente.
Ricordo che una volta mia madre si provò a rimetterli a posto. In doppia fila, uno accanto all’altro, tenendo conto della loro grandezza. Lei considerava i libri dal lato estetico e aveva messo quelli gialli a fianco dei beige, poi i rilegati in pelle e infine i neri, più scuri e polverosi. Secondo un ordine di grandezza che andava dal piccolo al grande, dove al grande era riservato un posto di maggior prestigio nella libreria. Pensava che i libri ponderosi fossero più importanti. Quando ritornò, Pierre si arrabbiò molto. Disse alla mamma che i libri non sono bicchieri. Che non si mettono in fila secondo la grandezza. Che andavano ordinati secondo gli argomenti e gli autori, altrimenti non ci avrebbe capito più niente. Avrebbe perso ore e ore a ricercare un titolo, senza saper dove trovarlo. Mia madre ci rimase male.