di Federigo Tozzi
Hanno già messo i chiodi sopra la mia cassa. Il mio viso è disfatto; la mia bocca gonfia, le mani a pezzi; e gli anelli d'oro, che m'hanno lasciato alle dita, entrano nelle carne del ventre. Per quanto il mio udito sia ingrossato, ed io ci senta in un modo come se avessi gli orecchi chiusi con la bambagia, odo suonare la musica; come, dianzi, piangere.
Mi dispiace lasciare così la casa, per sempre: so che non ci tornerò più; e oggi dev'essere una bella giornata limpida, tutta odorosa; e la gente allegra. Dinanzi alla mia casa devono ancora passare gli innamorati, fermandosi a guardare le mie rose che Celestina annaffia tutti i giorni.
Che importa se io non ci sono più? Tutto è come prima; e mio figlio è felice con Lorenza.
Avrò tempo di pensare a tutto prima di essere messo sotto terra? Perché ho paura di sentire la mancanza dei miei pensieri, la mancanza della mia anima; e chi sa per quanto tempo non potrei né meno piangere! Sapere che potrei piangere! Ma non mette ormai conto parlare di me, e né meno del male che mi ha fatto morire.
Riconosco bene la strada, per dove mi portano verso il cimitero? Ora mi par che siamo su per quella che sale un poco, e dianzi abbiamo voltato: ora, forse, siamo fermi. Chi sa perché?
Ma di ricordi non riesco ad averne. So di avere vissuto, ma lo so soltanto teoricamente. Piuttosto è come se la febbre della malattia mi durasse ancora; e più forte. Mi ha fatto doventare cieco. Ma ecco che ora riconosco il clarinetto! Il motivo lo fa lui.
Sembra una cosa inventata che io abbia vissuto: una parola soltanto. E non capisco perché io non esista né meno come il suono di quel clarinetto.
I nomi dei miei figli e della mia nuora mi fanno lo stesso effetto di quando io parlavo dei nomi dei continenti lontani; e non so né meno più quel che debbano significare.
Il mio non lo ricordo. Ho soltanto la sensazione di che cos'è un figlio o una nuora. E pure essi devono essere dietro alla mia casa; e, certo, piangono.
Ma dove andiamo così, e io non posso tornare a casa mia?
Ora mi par d'esser preso. Mi portano in chiesa: lo sento, perché salgono le scale. Mi mettono nel mezzo. Odo cantare e pregare. Se riescissi a vedere almeno uno dei lumi! Ma nel mio cervello la luce non è che una tinta gialla, che cola.
Ma non c'è niente che muore con me: sarebbe una consolazione, la sola amicizia che sono in grado di comprendere. Vorrei che i ceri si consumassero tutti. Anche le ghirlande resteranno fresche fino a domani, e sono troppo distanti.
Ecco la voce del prete. Mi riprendono. Bisognerebbe che mi portassero più piano. Fermiamoci, anzi. Devo, prima, capire. Devo, prima, trovare. So che devo trovare. Finché non avrò trovato, la mia morte non sarà perfetta. I morti non si lasciano così.
La mia anima, però, deve essere vicina a Dio. Questi non sono che frammenti dei miei sensi, che conservano ancora l'abitudine, presa con l'anima, della loro attività. Ma non è vero ch'io non mi ricordo di niente. Vedo un ragazzo che cade in avanti, in un campo: le sue gambe grasse e quasi rosse; un giovinotto che s'innamora e sposa; una giovine leggiadra con i riccioli neri; i miei figli Celestina e Luigi, e la mia nuora.
Quando passava una folata di vento, la rugiada sgocciolava dagli alberi, e portava il canto degli uccelli più lontano. Il mio cuore respirava in fretta. Avevo mattinate in cui pareva che la mia esistenza fosse vasta come tutte le cose insieme attorno a me. Anzi, le cose vivevano con una intensità alacre che non hanno, nella realtà delle mie percezioni che restava ben separata e distinta da quella di se stesse. Ma io ero contento, come quando si sente che si può amare.
Mia moglie era giovine e bella, e tutti i giorni le volevo più bene: m'ero così abituato a lei, che cercavo nei suoi occhi la sensazione della mia esistenza. L'amavo sempre più fanaticamente, al punto che dimenticavo me stesso per lei. Ed io non ne ricevevo, in compenso, che l'assoluta certezza della sua fedeltà.
Molte volte, da mezzo i campi, sono tornato di corsa, a casa, soltanto per vederla; perché le mie sensazioni, restato solo, non volevo averle.
Ella m'era piaciuta immensamente; ed ora non vedevo più la sua bellezza; ma volevo che il suo spirito fosse sempre insieme con il mio. Parlandole, la mia voce mi pareva la sua, in certe modulazioni e in certi toni. Le cose che io dicevo mi parevano pensate anche da lei; e non avrei mai creduto che io smettessi di vivere mentr'ella vive ancora e respira. La credevo così mia che io avrei dovuto vivere, soltanto per questa ragione, più di lei. Alla fine anche il suo nome, a forza di pronunciarlo più spontaneamente di qualunque altra parola, dava un senso a tutto quel che pensavo con lei. Aveva pochi capelli, perché gliene cadevano tutti i giorni; ma così neri che m'hanno fatto sempre meravigliare. I suoi occhi, accesi sempre dalla stessa luce lionata, che al sole diveniva più chiara, quasi gialla, mi davano le vertigini; e bastava che io glieli guardassi un poco perché tutto fremente la stringessi al mio petto, baciandole la bocca senza saziarmi mai; perché il fascino della sua bocca restava sempre lo stesso.
Ma ella, baciandomi, pareva che mi obbedisse. Ed era questa sua obbedienza affettuosa, che io chiedevo a lei.
Io non potevo vivere se non dove fosse lei.
Ora questi ricordi, che già sembrano di tanti anni, sono come un sogno che mi segue. E capisco bene la differenza che c'è tra essi e lei; che forse è in una carrozza dietro la mia bara.
Nei giorni di febbre, anche il mio amore si faceva più forte, sentendo che sopravviveva a me. E allora mi volgevo a lui, perché io potessi guarire. La febbre mi dava sensazioni deliziose quantunque interiori; e mi sforzavo di sollevare la testa dai cuscini, per afferrarmi a loro; cercando di sostituirle del tutto alla mia trista e sciocca camera; dov'ero chiuso. Ma io avevo paura, per un grande pudore, che mia moglie se n'accorgesse; e le nascondevo queste impazienze violente; socchiudendo gli occhi quando mi guardava; perché certo nei miei occhi ella doveva vedere qualche cosa, quasi insolita, che non era un effetto della debolezza e della malattia. Ella doveva vedere la mia anima folle, e non capiva!
Ma, quando mi sono accorto che dovevo morire, la mia mente ha preso una lucidità che non aveva mai avuta. Tutta l'intelligenza, con un equilibrio meraviglioso, di cui io stesso potevo constatare l'esattezza, era a mia disposizione. Per quanto non potessi muovere né la testa né le mani, io mi sentivo capace di qualunque calcolo e di giudicare qualunque cosa, non solo mia, ma anche degli altri. Il suono della mia voce, che mi sforzavo in vano di udire, doveva essere certo cambiato. Ma non m'importava, perché sentivo che la giustezza dei miei pensieri sorpassava quel che gli altri si aspettavano da me.
E mi occupai della famiglia e del patrimonio.
Quando il sacerdote venne a comunicarmi, io ero così automaticamente disposto a dire ogni verità, che io mi sarei meravigliato che non me l'avessero domandata. Trovai naturale che il sacerdote ponesse l'ostia tra le mie labbra: la cosa più naturale che avessi mai osservata durante tutta la mia esistenza.
Dopo poche ore cominciai a non distinguere più, quantunque i miei occhi non fossero annebbiati. Ma io sentivo che la mia anima acquistava sempre di più la sua presenza, che mi pareva solida. Udivo parlarmi, ma non m'importava più di capire. Alla fine ho perso la coscienza, come quando ci si addormenta. Ed ora mi passano come dinanzi agli occhi queste cose sole.
Ecco le prime palate di terra: le lacrime mi riducono il viso in poltiglia.
Parole di un morto fu pubblicato postumo nel 1921 in Cronache d’attualità e poi ristampato nella raccolta Le novelle, a cura di G. Tozzi, Vallecchi, 1963.
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