di Carlo Bordoni
L’esistenza di esseri viventi di natura extraterrestre ha sempre affascinato gli scrittori di fantascienza, fin da quando H. G. Wells scrisse La guerra dei mondi (1898), in cui ipotizzava un’invasione di marziani. Ma nessuno era giunto a rappresentare una creatura così spaventosa, così letale, così profondamente credibile come Alien, creato dall’immaginazione di Alan Dean Foster e portato sullo schermo da Ridley Scott nel 1979.
La storia parte da un contesto tradizionale per la fantascienza: durante un “normale” viaggio interstellare, l’equipaggio del Nostromo, un’astronave cargo, viene inaspettatamente risvegliato. I sensori hanno captato un segnale ritmico di soccorso e questo non può che significare una cosa: presenza di vita intelligente. L’esplorazione rivela la presenza di un’astronave aliena semisepolta che trasporta un carico biologico. Sembra un’immensa incubatrice, la cui funzione sia quella di portare in salvo il seme di una civiltà morente o minacciata da pericolo di estinzione. L’eccezionale, insperata occasione di incontrare una civiltà extraterrestre, però, si rivela ben presto una grave minaccia per l’incolumità dell’equipaggio e per gli stessi abitanti della Terra.
La particolare caratteristica del mostro, che Carlo Rambaldi ha tradotto per lo schermo con straordinario realismo, sta nella sua sottile capacità di richiamare alla coscienza del lettore-spettatore alcuni inquietanti motivi o segni distintivi della biologia e della morfologia umana e animale, mescolandoli in un sapiente contrasto. Partendo dal presupposto (psicologicamente fondato) che non si può aver paura di ciò che non si conosce, l’alieno creato da Foster ha in sé quel tanto che è necessario per suscitare inquietudine e repulsione, a cui si aggiunge la violenza, la minaccia incombente per l’uomo. Le tre fasi della vita biologica di Alien — uovo, feto e adulto — corrispondono ad altrettanti “segni” all’interno di una terribile contaminazione tra umano e mostruoso. L’uovo, celato nelle profondità minacciose di un pianeta sconosciuto, rivela le sue potenzialità riproduttive, quasi oscene, all’avvicinarsi dell’uomo. Il feto, partorito dall’addome di uno degli uomini dell’equipaggio, richiama, ad un tempo, la forma di una mano e quella, altrettanto familiare, di un ragno.
Ma è la creatura adulta a dispiegare tutte le possibilità di un orrore dai contorni inconfondibili dell’ingegneria biomeccanica, con la sua struttura a metà fra un rettile e un cyborg. Alien fa paura proprio in virtù di ciò che siamo disposti a riconoscere di umano in lui, come di fronte a una velata minaccia di ciò che potrebbe diventare l’uomo in un luogo e in un futuro remoti, senza più alcun legame culturale o comportamentale con l’oggi.
Come per una sorta di solidarietà biomeccanica, l’androide che fa parte dell’equipaggio del Nostromo all’insaputa degli altri, che lo credono umano, fa in modo di difendere strenuamente la “preziosa” esistenza di Alien. È uno dei casi cari ad Asimov, autore delle tre famose leggi della robotica, di macchine modificate per esigenze di servizio. Si scoprirà con raccapriccio che la sua prima legge è quella di salvaguardare forme di vita aliene incontrate tra le stelle e di condurle sulla Terra, anche a costo di sacrificare la vita degli esseri umani, al solo fine del progresso scientifico. Ripley, l’unica donna dell’equipaggio, è la sola a riuscire a tener testa al pericolo rappresentato da Alien, ribadendo il messaggio al femminile che traspare da tutto il libro, come dal film: la figura materna come garante della continuità e della salvaguardia della specie, che s’inserisce in un contesto di “segni” maternali rassicuranti (il computer di bordo chiamato “Mamma”) o inquietanti (la struttura organica del pianeta di Alien, che richiama i genitali femminili), a seconda del punto di vista dell’osservatore.
Il romanzo di Foster, dopo il film di Ridley Scott, ha goduto di altre due appendici filmiche, Aliens-Scontro finale (1986) di James Cameron e Alien 3 (1992) di David Fincher, indicative del fascino esercitato dalla creatura biomeccanica sull’immaginario di massa.
1 commento:
Ripley non è l'unica donna dell'equipaggio: c'è la navigatrice Lambert, interpretata dall'attrice inglese Veronica Cartwright.
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