sabato 2 luglio 2011


Adriana Alarco de Zadra
IL VIANDANTE MALRIDOTTO

Un bel pomeriggio d’estate, eravamo nel bosco degli ulivi giocando a nascondino, dietro la vecchia casa della nonna, mentre i cugini più piccoli costruivano casette di canna e fango vicino alla pozza delle anatre.  Non immaginammo mai la sorpresa che ci aspettava prima che arrivasse la notte.  Assieme ai cugini Victor e Claudio, partecipavamo alle birichinate ed ai giochi con gli altri ragazzi della fattoria: Mango era figlio del cinese, il giallo padrone dell’unico negozio, che portava i suoi occhietti allungati ed un sorriso amichevole.  Poi c’era Pepa, l’orgoglio di suo padre, il capo squadra dalla pelle ramata che ci estasiava le domeniche colla sua chitarra. Giocava con noi anche il piccolo Fito, figlio del Pagliaccio e nipote della nera Ignazia, il quale non conobbe mai suo padre perché fu concepito  una notte di Carnevale, quando quello portava  una maschera.
Eravamo tutti sudati dal correre e giocare, mentre, dietro il pollaio della nonna, cantava il gallo sopra il convolvolo di campanule blu.  Il gelsomino, intanto, profumava sotto il sole bruciante.  Le dune fumavano.  I carrubi si profilavano storti e languidi nella nebbia che si era alzata all’ora della siesta.  Si sentiva il gracidare delle rane, il canto stentato delle oche in mezzo al nostro schiamazzo.  Victor, il più birichino, era intento a costruire chi sa ché, senza arrampicarsi sugli alberi come faceva in genere con quelle gambe allampanate, ogni giorno più magre e lunghe.  Era appena uscito dal “rosolio” come lui lo pronunciava, che non era un liquore per malati come volevamo far credere alla vecchia Ignazia, ma una temibile rosolia con macchie rosse dappertutto sul corpo.  Era in convalescenza e lo lasciavano giocare, seduto sulla sabbia con un cappello di paglia, di  tesa larga per non scottarsi, perché scomparisse quella pallidezza così trasparente che aveva perfino cancellato le lentiggini che aveva sul naso.
Dopo i giochi, ci piaceva saltare dentro l’acqua del canale d’irrigazione per fare il bagno nel “acqua nuova”, arrivata dopo le piogge dalla cordigliera Andina.  Uscivamo puliti e contenti, meno Fito che rimaneva sempre indolenzito perché sua madre lo strofinava con la spazzola da lavare i panni e molto sapone, per farlo diventare più bianco, ma senza grandi risultati.
Quel pomeriggio ci preparavamo per entrare in acqua, quando Claudio, arrampicato con la testa in giù sopra di uno degli ulivi, con la sua chioma rossa che pendeva spettinata, diede il grido d’allarme.
Guardammo tutti verso il deserto costiero, e lontano, sotto il soffio del vento “paraca”, osservammo avanzare barcollando in lontananza un’ombra ondeggiante che sembrava dissolversi in mezzo ai miraggi.  Era verità o magia?  Era verità: un personaggio si avvicinava alla fattoria.  Non arrivava a cavallo, né col autobus, né col camion.  Cercava di avanzare trascinando i piedi ed inciampando.
Che cade! Che cade! E’ caduto! - strillò Claudio, mentre scendeva rapidamente dall’albero.  Non potevamo più osservare l’ombra avanzare sulla sabbia.  Era svanita fra  le dune prima di arrivare alla casa della nonna.
Ci lanciammo di corsa verso dove lo avevamo scorto per l’ultima volta, per curiosità, e per soccorrerlo se fosse stato necessario.
- E’ verde! - esclamai con meraviglia avvicinandomi.
- Ed è malato! - affermò Pepa, tremando.
- E’ tutto bagnato! - osservò Mango, guardandoci con occhi furbi.
L’ ultimo arrivato fu Victor.  Vedendo la sagoma sdraiata per terra con la faccia verde e grossa, coperta di macchie rosse, manifestò con voce timorosa:
- Ha il rosolio, come me.
Effettivamente, quello strano personaggio aveva un colore poco comune.  Ci  rendemmo conto, poi, che dalla sua schiena cadeva una sostanza gialla che non sapevamo se era sangue chiaro o qualche altro liquido corporeo, anche se non aveva odore di pipì ma di muschio.
Decisi ad aiutarlo, lo trascinammo per un po’ lungo la sabbia, giacche da sempre la casa della nonna accoglieva i forestieri, stranieri, esteri o esotici, oppure “dafforani” come chiamava Ignazia quelli che arrivavano “da fora”.  Era abitudine ricevere nella fattoria gente d’altre razze, culture e credenze perché la nonna ripeteva: “Non bisogna trattare male i visitatori di buona volontà, soltanto perché arrivano da lontano”.
Per questa ragione, un individuo colla pelle verde e le macchie rosse sul corpo, che versava liquido giallo dalla schiena, non ci stupì più di tanto in quel momento, anche se ora che lo ricordo, dopo tanti anni, mi sorprendo della nostra incredibile ingenuità.
Il forestiero portava una tuta aderente e dalla cintura pendevano diversi apparecchi che si accendevano e spegnevano, emettendo suoni intermittenti e rumori bisbiglianti.  Lo circondammo sorpresi, ed in un primo momento non avevamo il coraggio di toccarlo per portarlo con noi. Vicino al corpo svenuto, risplendeva sotto il sole un casco argentato con disegni geometrici, inconsueto.  Claudio, il cugino irrispettoso come sempre, cercò di metterlo sulla propria testa, ma lo tolse in fretta e lo gettò lontano.
- Ha musica e filmini dentro! - balbettò spaventato.
Quello sì che era molto insolito, veramente.  Ancora più del colore della pelle dello sconosciuto, perché le uniche pellicole che vedevamo nel cinema del paese erano quelle di Tarzan, e non avevamo mai saputo che dentro un casco, anche se era brillante ed argentato, potesse apparire Tarzan.
- E non è Tarzan! - s’affrettò ad affermare vedendo le nostre facce perplesse e diffidenti.
Afferrai il casco senza paura e lo misi su fino a che mi coprì completamente la testa. Attraverso la lamina trasparente davanti agli occhi, a parte il paesaggio intorno, vidi un personaggio con gli occhi sporgenti e la bocca grande che parlava in una lingua sconosciuta.  Mi dava delle istruzioni.  Cercai di capire quello che voleva comunicarmi, ma non comprendevo.  Ebbi la sensazione di alzarmi in aria per qualche metro, ma quando mi tolsi l’artefatto dalla testa, sbalordita, mi trovai ancora con i piedi per terra.  Meno male che non mi sono fatta male, pensai, perché la nonna mi avrebbe sgridato per l’imprudenza.
- Mi avete visto volare?- domandai ai ragazzi.
- Nessuno ti ha visto volare, - rispose Mango che non credeva in fattucchiere. - Sei stata qui accanto, tutto il tempo.
-  Però, al casco le sono cresciute le antenne!
Pepa si avvicinò e carezzò il copricapo che s’illuminava da solo, con luci intermittenti.  Le due antenne si erano ritirate ai lati, e non si vedevano più.  Come mai io avevo visto il paesaggio dall’alto senza aver mosso i piedi da terra?  Chi era quel personaggio che mi parlava dentro la testa? Era quello un casco con pretensioni arrampicatrici, un ascensore, oppure una macchina volante, mobile, da corsa?
 Decisi che non volevo sondare subito il mistero perché erano già sufficientemente incomprensibili i fatti occorsi quel pomeriggio.
- Sarà questo il forestiero che la nonna aspetta da sempre, quando scruta l’orizzonte sopra le dune? - chiese Claudio indicando l’individuo malconcio, mentre lo tirava dalle braccia e noi dai piedi.
Nessuno rispose, stanchi com’eravamo per lo sforzo, e ammutoliti per il dubbio e l’incertezza.  Allora corsi fino alla cucina della nonna, chiamando Ignazia.
Affannata, la vecchia cuoca venne fuori asciugandosi le mani con uno straccio.
-  Che cosa porti fra le mani, Rosa? - mi chiese.
- E’ un casco del forestiero che è svenuto sulla sabbia, - risposi.  - Dentro porta dei film e ti fa volare.
- Quante stupidaggini racconti! - disse, movendo la testa rassegnata, la buona donna.  Era abituata ai nostri voli immaginari e a tutti i forestieri che s’accostavano alla tavola in casa della nonna.  Poi, osservò con trepidazione il nuovo personaggio. Infatti, i ragazzi s’avvicinavano alla cucina che mandava odori forti e piccanti, portando il foraneo svenuto.
- Chi è quello che portate qui, birbanti? Dovete stare attenti...- strillò la donna di colore, chiocciando come una gallina vecchia.
- Abbiamo trovato questo “dafforano” sulle dune, - interruppe Fito.
- Sembra morto, - bisbigliò Claudio.
- Penso che ha preso il rosolio, come me, - disse Victor indicando le macchie rosse.
Ignazia s’avvicinò al corpo steso sulla sabbia.  Era un essere piccolo e storto come un carrubo vecchio. Lo prese con le sue braccia forti e lo portò fino alla cucina.  Col suo spirito nobile, generoso e osservatore, si rese conto subito della situazione, ed esclamò:
- Un altro che ci cade dal cielo! - Esaminò il corpo con curiosità. - E’ ferito.  Mi pare che abbia un taglio di machete dietro, sulla schiena.
Arrivò la nonna preoccupata in cucina, sentendo il trambusto.  Fece portare senza indugio il forestiero ferito in uno dei letti che manteneva per ospiti inaspettati, che trattava sempre bene perché non si stancava di ripetere:
-  Che siano forestiere arrivati da lontano, non significa che sono cittadini di seconda categoria.
Così lo abbiamo capito fin da piccoli.
Pulì e curò la ferita con attenzione, in quella pelle verde ed alquanto squamosa che faceva sembrare il nuovo venuto o nuovo svenuto, più a un’ iguana che a una persona.  Poi coprì e fasciò la lesione della schiena con lunghi stracci di stoffa che strappò da un lenzuolo pulito.
Quando finalmente lo lasciò a riposare, vedendo che respirava un po’ meglio, la nonna fece l’interrogatorio a tutti.  Raccontammo subito del casco che faceva volare, con cinema incorporato, e lo sequestrò immediatamente. Lo chiuse sotto chiave nel baule che teneva ai piedi del letto, lo stesso che conservava, come ci raccontava, le sue lenzuola ricamate da sposa.
- Questo non è un giocattolo, - pronunciò con saggezza. - Possiamo imparare in questa vita con l’esperienza degli altri, anche se arrivano da un luogo più in là delle stelle. Ma non dobbiamo mancare di rispetto a loro ne ai loro oggetti.
Rimanemmo tristi ed insoddisfatti perché tutti volevamo metterci il casco sulla testa, ed io, più di tutti, volevo volare ancora, anche se fosse soltanto con l’immaginazione, e vedere come funzionavano le piccole antenne.
Nella fattoria cominciarono le inchieste per scoprire chi erano quelle canaglie che avevano bistrattato il forestiero, lasciandolo malconcio col machete.  Lui che era atterrato sulle dune, proveniente da un mondo lontano, senza aggressività, violenza o motivo di combattere secondo le supposizioni della nonna.
La figlia maggiore della cuoca Ignazia, e madre di Fito, sapeva che un gruppo di malviventi stava rendendo insicura la regione, intossicandosi con intrugli di sughi di cactus ed altre bevande allucinogene.  Sospettò che fossero loro i colpevoli.  Lei conosceva bene molti uomini della zona.  Viveva cercando di scoprire chi l’aveva resa madre e tutti gli anni, durante le feste del Carnevale, cercava di smascherare i pagliacci chiedendo loro  a bruciapelo:
-  Sei tu il padre di Fito?
Cosi, quando seppe dove stavano allora i banditi, lavoratori temporanei nelle campagne, mosse cielo e terra per trovarli e portarli alla giustizia, ma successe quello che accadeva sempre con le altre sue ricerche.  Furono vane e infruttuose, e l’unica risposta che sentì intorno furono delle risate.
- La nostra gente dovrebbe accogliere tutti con rispetto, soprattutto se arrivano con buone intenzioni, - si lamentò la nonna quando seppe delle vane ricerche della madre di Fito.  Lei aveva capito già dell’ aggressività dei raccoglitori stagionali di cotone che contrattava per i lavori durante l’estate.
Pochi giorni dopo averlo alimentato con brodo di gallina e uova di quaglia, più alcune infusioni d’erbe, e di fregare il suo pellame coriaceo con tintura di timo, melissa e tamarindo, il paziente incominciò a ricuperarsi.  La nostra curiosità ci portava a sbirciare dentro la stanza per ospiti, ma la scura madre di Fito era sempre di guardia sulla porta, lavorando a maglia, perché nessuno lo disturbasse.
 Un pomeriggio sull’ora della siesta, trovammo la chiave insolitamente inserita nella chiusura del baule della nonna, ed approfittammo del sonno della veneranda anziana per impossessarci del copricapo magico.  Lo mettemmo sulla testa a Victor, perché era stato ammalato, quindi aveva più diritto di noi che eravamo sani.  Subito, dai lati uscirono due antenne, ma lui, tremando, si tolse il casco dalla testa e gridò:
- C’e un’anatra morta sul tetto!
- Un’anatra morta sul tetto?
- Sai, Rosa?  Deve essere la stessa che Claudio prese dalle zampe e lanciò al belvedere, quando la nonna non lo vedeva, - svelò Fito.
- Stai  zitto, spione!
Allora, io presi il casco, lo mise in testa ed incominciai a volare anch’io.  Mi alzai sul gelsomino che profumava le ore della siesta, su, sopra l’eucalipto, arrivai al belvedere sul tetto, con la sua veranda di legno danneggiato dalle crepe ed osservai così l’anatra defunta che la rabbia ed il malumore di Claudio aveva fatto atterrare sul tetto della dimora, il giorno prima, dopo la sgridata della nonna.  Continuai a sollevarmi ed attraversai la nebbia.  Il cuore mi batteva dalla paura fino a che salì sopra una nuvola e potei vedere laggiù, fra le dune e molto lontano dalla casona e dal villaggio, dentro un fossato sabbioso, ben nascosto dalla nostra dimora, un enorme apparecchio volante, senza ali, come un disco argentato e splendente.
Cercai di togliermi il casco, tirando dalle antenne.  Immediatamente, uscirono dai lati del copricapo delle cinghie e mi legarono la parte superiore del corpo, come serpenti, mentre si ascoltavano le grida dei ragazzi e le parole incomprensibili del cicerone dentro il casco.
- Attenta che alzi il volo veramente! - gridavano i cugini.
Presi il casco con le mani e cercai di togliermelo.  Si snodarono le cinghie e cascai per terra.  Ero veramente levitata qualche metro dal suolo!
- Quasi te ne vai volando in aria! - assicurò Pepa spaventata.
Capì, allora, che potevamo volare fisicamente col casco in testa, e non soltanto per vedere il mondo dal tetto della casa.  Questo era un fatto che ci metteva un po’ di paura.  Gli altri ragazzi si misero il casco per provarlo, ma non tirarono delle antenne per non staccare i piedi dal suolo.  Noi vigilavamo attentamente giacche non volevamo perdere nessuno dei compagni di gioco, parenti e no perchè si mettesse a volare e si allontanasse per aria, soprattutto per timore al castigo della nonna.  Tutti rimasero meravigliati da quel che vedevano dall’alto, senza muovere i piedi da terra.  Decidemmo riportare l’oggetto magico nel cassone.  Probabilmente il forestiero avrebbe avuto bisogno del casco volante per tornare al luogo da dove era venuto.
Decidemmo di mantenere il segreto su quello che avevamo visto e provato,  sgomenti da quel mistero inesplicabile. Se lo avesse saputo, la nonna ci avrebbe castigato almeno per un mese senza mangiare dolci.
- Cielo santo! - ascoltammo il grido dell’anziana signora, quando entrò una mattina alla stanza per ospiti.
- Ave Maria! - recitò Ignazia dietro di lei.
Non ci raccontò mai la nonna cosa parlò con il forestiero, né in che lingua, ma indovinammo che quei due si capirono.  Quella mattina prese il copricapo dal baule e ci riunì nel patio, sotto il gelsomino.
Ci istruì. - Il forestiero è sano, adesso, vuole tornare al suo mondo e noi dobbiamo facilitargli il compito, e non turbare i suoi desideri per curiosità, invidia o malvagità. 
Quel giorno assistemmo a dei fatti inusitati, in piedi, vicino agli zii, che portavano i loro stivali lucidi come i giorni festivi, al cinese del negozio, alla nera Ignazia, ai raccoglitori di cotone di pelle color caffè, alle zie ed alla nonna dai capelli bianchi e pelle lentigginosa che diventava rossa appena prendeva un po’ di sole.
Apparve il forestiero vestito con un pantalone di cotone grosso, appena stirato, ed una camicia a quadri.  Capimmo che la nonna aveva deciso di vestire il visitante decentemente per il suo viaggio, e fu allora che vedemmo, sorpresi e meravigliati, che aveva scucito il pantalone dal di dietro, per lasciar uscire una coda verde e squamosa che il visitante trascinava dietro di sé.
- Gli è cresciuta una coda da lucertola! - ripeteva Ignazia, e la vedemmo fare il segno della croce mormorando preghiere.
- Probabilmente gli tagliarono la coda col machete e si è rigenerata come quello di una lucertola! - bisbigliavano gli zii.
Non traballava più né spandeva liquidi gialli.  Il forestiero andò sul belvedere della dimora, mentre la coda balzava dietro sugli scalini consumati. Alzò le braccia come salutando e fece una smorfia che poteva sembrare un sorriso.  Poi, si mise il casco sulla testa.  Immediatamente apparvero le antenne lanciando dei raggi, e le allungò con le sue dita curve.  Le cinghie le legarono il corpo, sopra la camicia a quadri e, silenziosamente com’era arrivato, sparì nella nebbia pomeridiana.
I lavoratori tornarono alle loro faccende, domandandosi se avevano sognato o se era un nuovo trucco del circo che arrivava in paese durante le feste.  Gli zii alzarono le spalle e montarono a cavallo verso le campagne, abituati com’erano ai visitatori esotici e saltimbanchi che s’avvicinavano a casa della nonna.
Noi, sospettando i fatti posteriori, dirigemmo gli occhi verso l’orizzonte e poco dopo vedemmo un disco argentato alzarsi verticalmente fra la nebbia e la sabbia, staccarsi dal suolo ed avviarsi velocemente verso le stelle.
Quel fatto lasciò una traccia durevole nelle nostre menti. L’esperienza di intravedere per momenti un altro mondo, nuovo, magico, inspiegabile, riempì la nostra gioventù di sogni sorprendenti ed il nostro futuro d’ospitali accoglienze, inaspettate ed addottrinanti.
Attraverso gli anni, i visitanti sono stati ancora e sempre ben accolti in questo luogo del mondo.  Posso assicurare che fino ad oggi, in casa della nonna, anche se lei non ci accompagna più, sul tavolo domenicale aspetta sempre un piatto per il forestiero.
(da: Racconti forestieri in altri spazi)

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