sabato 2 luglio 2011


Roberto Barbolini 
IN VINO VERITAS

Il mare di Omero è rosso come il vino, non l’ho più dimenticato dai tempi della scuola. Rosso granata era la maglia del Grande Torino che ci scippò lo scudetto nel Quarantasette. Rosso Magenta è il colore del Risorgimento, rosso porpora quello della vergogna; rosso ciliegia è il naso di Geppetto, rosso corsa la Ferrari rombante. Rosso marsala è il vino dell’eucaristia che assaggiai di nascosto quando facevo ancora il chierichetto.
Rosso violaceo, con riflessi prugna e malva, è il lambrusco che mi frizza nel bicchiere.
Seduto di fronte a me all’altro capo del tavolo, Angelo, il mio socio in affari, sta affondando i denti in un bel filettino al sangue con contorno di patate al forno insaporite da aglio e rosmarino.
Mentre mi verso un altro goccio, guardo perplesso il suo bicchiere: è ancora pieno in modo sconveniente. Finalmente lo solleva, lo fa ruotare lentamente, alla maniera dei sommelier che si vedono in televisione, e con quel gesto ieratico che conosco così bene se lo porta all’altezza del naso. Per un po’ resta così, le narici dilatate, le pinne nasali vibranti al diapason finché, a poco a poco, sulla faccia gli si dipinge una lieve ma decisa espressione di disgusto.
 Faccio finta di niente e intanto mi rodo. Se non fosse per quella storia degli assegni a vuoto, che mi hanno costretto a un prelievo forzoso dalla cassa comune delle nostre cosiddette opere pie, adesso non dovrei starmene qui a ungerlo come una supposta.
  Mentre gli stappo controvoglia un Cannubi San Lorenzo di Rinaldi, provo quasi una gioia maligna nel dirgli per l’ennesima volta che ai forti bevitori di barolo come lui, condannati a invecchiare tristemente, se pure scampano alla cirrosi, la pelle diventa a poco a poco d’un allarmante colore grigiastro, piena di macchie rosso terracotta; mentre i grandi bevitori di lambrusco anche in tarda età sfoggiano una carnagione bianca e rossa come di pesca, da fare invidia a un putto di Rubens.
Tutto inutile. I suoi sciocchi pregiudizi enologici gli paralizzano le papille gustative, impedendogli di assaporare il bouquet fruttato -un misto di amarena e viola mammola- che ad ogni nuovo sorso mi canta nell’ugola.    
Per un po’ questa gradevole sensazione di andare in cimbali e galleggiare nell’aria come un dirigibile -da lassù le beghe del mondo assumono finalmente le giuste proporzioni, è per questo che tanti fedeli sognano ancora di andare in Paradiso- riesce a cancellare il timore che Angelo abbia scoperto i miei maneggi e il grosso ammanco da quella specie di cassa comune segreta, dove storniamo i fondi di cui si alimenta la nostra  cosiddetta «beneficenza personale».
«Vuoi un altro goccio di coca?» mi sfotte, continuando a centellinare con aplomb ostentato il suo barolo. E mi indica la bottiglia di lambrusco vuota.
Dev’essere la seconda o la terza che mi scolo.
Basta questa consapevolezza perché la mia testa incominci a girare. L’euforia di poco fa s’è dissolta in un baleno. Di colpo mi sento precipitare verso il basso, ostinatamente aggrappato al bicchiere, mentre il piombo d’una cena troppo pesante, mescolato ai fumi dell’alcol, mi si piazza tristemente sullo stomaco, intossicando le vene e intorpidendomi il cervello.
Sento il sangue salirmi alla testa mentre continuo a scendere a capofitto verso un gorgo color rosso rubino, inferno spumeggiante già pronto ad inghiottirmi. E il peggio è che intanto , come in un brutto sogno, continuo a vedere dal di fuori il mio corpo grassoccio che precipita a testa in giù, goffo e senz’anima come un burattino. La mia faccia, dapprima rosso porpora, passa via via allo scarlatto, al vermiglio, al Borgogna, al Bordeaux, al rosso liquoroso del marsala invecchiato: il mio vecchio vino della messa.
Dio mio, dio mio, che cosa mi sta succedendo? Aggrappato all’ultimo barlume della mia coscienza offuscata, come un naufrago alla chiglia rovesciata nel mare in tempesta, mentre  mi sforzo invano di biascicare una preghiera sento le ondate del mio odio per Angelo, vanamente mascherato per tutto questo tempo, crescermi dentro senza più dighe che le possano arginare. Finché un lampo color fosforo, zigzagando tra l’arancione e il porpora in mezzo ai cavalloni infuriati, illumina d’una luce spettrale la scena, come se l’occhio impassibile d’una cinepresa l’ avesse fissata in un attimo eterno con il fermo immagine.
Una calma quasi innaturale mi raffredda l’animo. Ma è una specie di bonaccia omicida, come la quiete nell’occhio del ciclone
Ormai l’ho capito. Se voglio evitare il carcere, risparmiando la vergogna d’uno scandalo a me stesso e all’Organizzazione di cui sono l’ultimo dei servi, non resta che una soluzione: far sparire il mio socio segreto. Per un Angelo che s’invola, non faticherò a trovare un apprendista cherubino che lo sostituisca. La sua scomparsa passerà quasi inosservata: da anni Angelo  vive solo e, per quanto ne so io, non ha ex mogli o parenti stretti in città, non parliamo poi di veri amici. Tranne me, naturalmente. O così crede lui.
Sto giusto finendo certi lavoretti giù in cantina. Visto che schifa il lambrusco, lo attirerò di sotto col pretesto di fargli assaggiare uno Château Chablis d’annata, che riservo per le occasioni speciali. Al momento giusto lo stordirò con il badile, poi lo trascinerò fino alla nicchia che s’apre in fondo alla parete. I muri sono insonorizzati e all’esterno non si sentirebbe neppure una cannonata. Ogni grido, ogni implorazione sarà vana: a nessuno salterebbe mai in mente di venirselo a cercare in un posto come questo. Resterà lì per sempre, dimenticato, come la statua inutile d’un santo. Al risveglio si ritroverà murato vivo. Come gli altri tre.
A quell’ora io sarò già in chiesa, a celebrare la prima messa del mattino.

Nessun commento: