sabato 2 luglio 2011

Bruce McAllister
LA SETTIMA FIGLIA



Il ragazzo americano viveva con i genitori in una villetta sulla collina sopra la baia, dove i giovani ballavano la notte, ridendo e gridando; le loro voci gli arrivavano attraverso gli ulivi quando si addormentava.
A volte si domandava quale fosse la vera storia.
Il mar Ligure sotto di lui, nella notte, dove molto tempo prima era affogato un poeta. Le risa e le grida sotto di lui soffocavano i sussurri del mare e il mormorio di quel poeta.
La faccia infantile che vedeva riflessa nello specchio quando aveva il coraggio di guardarsi. Le cose che aveva realizzato dipingendo e modellando l’argilla, con le parole che solo lui conosceva. Non importava, diceva – era tutto vero, anche se non lo era – ma il problema era sempre là, quando si addormentava e si svegliava.
Nei cassetti superiori del suo comò, con tutti i colori della creta, aveva creato un mondo e lo conosceva alla perfezione.
"Le sette figlie di Satana", lo chiamava. Aveva modellato con molta cura la valle, la foresta e i sette villaggi dove erano cresciute le figlie di Satana, che poi li avevano abbandonati. Gli uomini dei villaggi avevano paura delle figlie, benché belle, perché sapevano chi fossero. Le figlie non possedevano doni straordinari, nessun potere da strega né tendenze demoniache, ma gli uomini dei villaggi percepivano l'attesa.
L’attesa di lui. Tutta la valle e le montagne che la circondavano lo stavano aspettando. Se trattenevi il respiro e stavi ben fermo, potevi sentirlo anche tu: il ticchettio del grande orologio di Dio. L'ora non aveva importanza. Quello che contava era che il ticchettio non si fermasse mai. Gli uomini lo sentivano quando, col cuore in subbuglio, guardavano i volti delle sette figlie, e non facevano un passo verso di loro. Le figlie non capivano.
Non potevano sentire il ticchettio, non sapevano quanto gli uomini le temessero.
Le figlie si occupavano sempre più di se stesse e gli uomini parlavano sempre di meno. Un bambino poteva correre da una ragazza e dirle qualcosa, porgerle qualcosa, portar via qualcosa o anche giocare con lei. Ma gli adulti non avevano questa possibilità. Le figlie crescevano più cupe, con le loro facce bianche e le labbra rosse, se una volta sembravano sette belle addormentate, ora apparivano simili a fantasmi evanescenti.
Tornerà, sussurravano gli abitanti del villaggio.
All'interno della casa di paglia, dove erano cresciute e dormivano fianco a fianco sulle stuoie nel pavimento di terra battuta, avevano una bambinaia sorda a vegliare su di loro. La bambinaia non poteva sentire il ticchettio, e stava diventando cieca ogni anno di più.
Ogni figlia aveva un cassettone costruito anni prima, quando dagli uomini del villaggio quando erano piccole. In ciascuno, ogni figlia aveva sette cassetti e nel primo, fatto d’argilla e arredato dal figlio della nutrice (che viveva con loro, ma dormiva in una stanza separata), c’era una replica del villaggio in cui la figlia era stata concepita e vissuta. Gli abitanti del villaggio sapevano che a tarda notte il piccolo popolo di argilla, gli omuncoli, avrebbe preso vita grazie a una forza soprannaturale e avrebbe attraversato il villaggio d’argilla fino a ogni cassetto, per intrattenere la figlia solitaria a cui apparteneva.
Un giorno il ragazzo, che non era di questa valle, ma ne conosceva la storia, trovò la più piccola e la più bella delle figlie e si fermò davanti a lei, grande e allampanato nel suo vestito scuro, il volto in fiamme dall’emozione. Lei, si vedeva, era spaventata quanto lui.
«Sei mio padre?» chiese.
«No» rispose lui «Sono un ragazzo.»
Lei annuì, sorrise appena e si lasciò prendere in braccio, danzando per il selciato della piazza del paese alla musica che non veniva dalle chitarre o da altri strumenti, ma dalla gola degli abitanti del villaggio che stavano a guardare e iniziò il ronzio, il suono riempiva la valle come la voce di Dio.
In poco tempo ogni figlia ballava e l'orologio smise il suo ticchettio.

Quando le note di vecchi canzoni del 1950, come "Diana", "Bye Bye Love" e "Venus", assieme le altre, giunsero al ragazzo dal Lido, la pista da ballo all'aperto nella baia proprio sotto la finestra della sua camera, egli si sdraiò sul letto, pensando a quei ragazzi e quelle ragazze – poco più grandi di lui, che flirtavano in un'altra lingua – che ballavano.
Non voleva alzarsi. Non voleva accendere la luce. Voleva ascoltare le canzoni fino a quando si fosse addormentato. Mentre dormiva sognò a lungo, sogni avventurosi in posti strani, eroi e creature da leggenda, ma anche sogni più brevi sopra le colline coperte di vipere, i funerali dei suoi parenti e una piccola barca nella tempesta, un naufragio, e furono questi sogni più brevi che si avverarono.
Perché accadde non lo sapeva. Non aveva senso, ma cosa aveva fatto nella vita?
Il sogno più lungo diventò molte storie, che scrisse interamente e tenne nascoste ai suoi genitori nel cassetto proprio sotto le sette figlie, anch’esse tenute nascoste.
Quelli che si avverarono non li scrisse mai. Lo spaventava troppo il farlo. Quando si fosse svegliato dal suo sogno, sarebbe andato a scuola con gli amici del villaggio, o verso il molo, da solo, a cercare le conchiglie tra i coloratissimi pesci nelle reti, o a camminare lungo la strada sterrata che portava da casa sua, oltre le mura, con le impavide lucertole verdi, fino all'Hotel Byron.

Un giorno i suoi genitori dissero: «Questo albergo è troppo nuovo. Non può essere dove sono vissuti.» «Chi?» chiese il ragazzo.
«Mary Shelley e suo marito Percy», risposero. «La donna che ha scritto quel libro. Quello sul mostro di Frankenstein.» Non molto tempo dopo avrebbe saputo da qualcuno che Percy, suo marito, il poeta, era annegato in una notte di tempesta, nella sua piccola barca, mentre era di ritorno da Viareggio, lungo la costa, nel tentativo di raggiungere quel villaggio.
Quando il ragazzo tornò nel suo paese e i sogni – quelli che si erano avverati – smisero, non scrisse più racconti né modellò oggetti d’argilla da mettere nei cassetti. Seppe che  anche quella donna, Mary, aveva sognato il suo sogno – quello che era diventato il suo libro amaro e terribile – in quel piccolo villaggio di pescatori.
Certe volte, anni dopo, quando diventò uomo ed ebbe moglie e figli, cercò di ricordare cosa fosse successo al cassetto e alle sue montagne, alla valle, ai villaggi e alle persone di argilla. "Le sette figlie di Satana", come l’aveva chiamato. Questo se lo ricordava, ma non riusciva a rammentare cosa fosse successo all'argilla. Che importava?
Non erano le persone – tua moglie, i tuoi figli – ciò che contava? Poi, una notte, mentre era sdraiato accanto alla sua moglie, lei mise il braccio su di lui e gli sussurrò al buio: «Grazie per averci liberate», e lui seppe che storia era e che non ci sarebbe mai stato niente più reale di questo. Perché è l'amore che rende reali le cose.
(traduzione di Carlo Bordoni)

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