sabato 2 luglio 2011

WIF1 / E-ZINE DI IF / LUGLIO 2011

In questo numero di WIF:


* Fernando Sorrentino, La laguna di Cubelli

Editoriale WIF1 / Luglio 2011
QUEST'ESTATE SI LEGGE IN PDF

Perché WIF? Per dare più spazio alla narrativa e all’informazione sul fantastico. Si affianca a IF, la rivista trimestrale cartacea edita da Tabula Fati e giunta al suo terzo anno di vita. Non rappresentandone un’alternativa, ma un’anticipazione e un’integrazione. Con i racconti e le traduzioni, le informazioni, gli annunci, i reprint, le novità editoriali e le lettere, che non trovano spazio nell’edizione a stampa. Uno spazio aggiornato con regolarità che può essere richiesto anche in formato PDF, per archivio, documentazione, collezione. Stampabile in proprio o leggibile come e-book. L’edizione in PDF è arricchita dagli originali dei racconti tradotti, con testo a fronte, ed è disponibile al prezzo simbolico di un euro: versamenti con PayPal all’indirizzo direzioneif@tiscali.it.
Buona lettura!
Riccardo Gramantieri
ANNI DI CRISI DELLA FANTASCIENZA


Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un progressivo impoverimento della produzione editoriale fantascientifica a vantaggio di un sempre maggior investimento nel fantasy. Il 2010 non ha visto modificare questo andamento. Anzi, soprattutto nel mercato anglo-americano la diffusione del fantastico è in aumento. Soprattutto è più che fiorente il settore dei YA (young adult) mercato fino a pochi anni fa relativamente di nicchia, o almeno non considerato dalle consuete sigle di science fiction e che invece oggi è in pieno sviluppo, grazie anche al fiorire dell’horror romance, genere che anche in Italia appare più lanciato grazie principalmente a Delos e Newton Compton. Ma se si può parlare di crisi come numero di titoli, non possiamo non notare la nascita di due collane dedicate al fantastico, quelle dell’editore Aliberti e di Coniglio Editore.
Ma iniziamo con ordine, e con l’editore che in Italia ancora rappresenta, e potremmo dire, oggi più che mai, la fantascienza. Parliamo ovviamente di Mondadori che, con Urania e le sue consorelle, mantiene aggiornato il mercato fantascientifico anche se, da almeno un paio d’anni ha visto modificare la sua consueta predilezione per i classici autori angloamericani. Infatti nel suo catalogo sono sempre più visibili gli autori nostrani e le proposte inconsuete, e non solo letterarie. Occorre ricordare che da quasi due anni, alla consueta immagine di copertina, realizzata dal bravo Franco Brambilla, si accompagna anche l’illustrazione interna in bianco e nero, opera del bravissimo Giuseppe Festino, da sempre più che mai a suo agio nelle opere a china. Dal punto di vista delle proposte letterarie, tutte di notevole valore, possiamo ricordare Cronomacchina accidentale di Joe Haldeman, avventurosa e molto divertente storia di viaggi nel tempo sulla scia di Wells, Un regalo dalle stelle dove James Gunn ritorna ad uno suoi temi preferiti, e cioè la ricerca di un contatto alieno, e poi i notevoli e attesissimi Nova swing di M. John Harrison, e, soprattutto Incandescence di Greg Egan, mentre ricordiamo l’hard science fiction  di Vernor Vinge Alla fine dell'arcobaleno. Non meno buone sono state le scelte di Urania collezione i cui volumi sono tutti meritevoli dell'acquisto. Nell'anno la collana ha riproposto classici come gli enigmatici Non-A e Le pedine del Non-A di van Vogt cui Riccardo Valla non ha mancato di accompagnare per ogni volume un autorevole commento, poi l'eccezionale speculazione geo-fantascientifica Stella doppia 61 Cygni di Hal Clement, il pensoso Shadrach nella fornace di Robert Silverberg e il mainstream apocalittico Addio Babilonia di Pat Frank. Per chi ama l'avventura spaziale, e specialmente quella che è stata definita new-space-opera, non può perdere Il sogno del vuoto, primo dell'imponente trilogia del vuoto di Peter Hamilton uscito in un volume Millemondi (€ 7,50) di più di cinquecento pagine. Purtroppo, il 2010 ha visto riflettere la crisi economica anche nel piccolo mondo della science fiction nostrana: la collana Urania-Epix ha infatti chiuso i battenti in giugno. Peccato perché le sue scelte che spaziavano dall’horror al fantasy al new weird, colmavano un vuoto editoriale. Almeno nel primo semestre siamo riusciti a leggere il visionario Bad Visions di Danilo Arona, l'horror Luce nelle tenebre di Nicholas Pekearo e il bizzarro Carni (e)strane(e) di Adriano Barone. Rimanendo poi in casa a Segrate, in libreria ricordiamo l’ultimo romanzo di  Salman Rushdie Luka e il fuoco della vita (€ 19,50), una classica quest in cui il piccolo Luka deve andare alla ricerca del fuoco della vita per risvegliare il proprio padre da un sonno profondo; mentre nella collana Strade blu ecco uscire Rex tremendae maiestatis (€ 18,50) di Valerio Evangelisti, ultimo (ma speriamo cambi idea) volume della saga dell’inquisitore Nicolas Eymerich, ambientato in una Sicilia inquietante invasa da feroci alieni cannibali. Sempre appartenente al medesimo gruppo, ma sotto l’etichetta di Einaudi, ricordiamo, oltre al mainstream paranoico Punto Omega (€ 18,50) in cui Don DeLillo torna al thriller pur con la scrittura intimista che lo contraddistingue da dieci anni a questa parte, anche l’impegnativo Leviathan (€ 20,00) di Scott Westerfeld, riscrittura alternativa e fantastica della Prima Guerra Mondiale.
Chi ha fatto la parte del leone sugli scaffali dei librai, quest’anno è stato Rizzoli, che ha varato una collana di rilegati chiamata HD, bei volumi rilegati di grande formato e dal prezzo più che accessibile. Le scelte spaziano dal thriller, alla fantascienza, all’horror. Fra i titoli che (possiamo dirlo) fanno ai nostri occhi Rizzoli il miglior editore dell’anno, non possiamo non citare la pubblicazione del notevolissimo Anathem di Neal Stephenson uscito nei due volumi de Il pellegrino (€ 16,00) e de Il nuovo cielo (€ 16,00); sempre fantascientifica è la serie di antologie curate a fine anni Ottanta da George R. R. Martin e ambientate nello stesso universo di Wild cards: finora sono usciti L'origine (€ 16,00)  e Invasione (€ 18,00). Non sappiamo se verrà pubblicata tutta la serie di 12 volumi, ma è un buon inizio. Da non perdere anche il weird fantascientifico Parainsonnia di Charlie Huston. Nel campo del thriller ricordiamo Redenzione (€ 16,00) di William Peter Blatty, indimenticato autore dell’esorcista e qui alle prese con problematiche non meno metafisiche. L’editore Fanucci di Roma invece ha impegnato le sue risorse soprattutto nel fantasy e nel romance, e nel settore della fantascienza possiamo almeno ricordare il notevole Pandemonium  di Dary Gregory (€ 17,00).
Passiamo alla piccola editoria. Nel 2010 salutiamo la nascita di una nuova collana di un editore già conosciuto soprattutto per la saggistica. Aliberti entra nel campo della fantascienza (ma prevede anche una serie di titoli fantasy) con due volumi interessanti: un romanzo catastrofico, Diluvio (€ 16,00), dell’inglese Stephen Baxter, un autore della new-space-opera da noi ingiustamente poco conosciuto; e un’antologia del duo Jack Dann e Gardner Dozois Dark Alchemy  (€ 17,00). Donzelli, che si occupa della riscoperta di testi classici, manda in stampa in eleganti edizioni l’orrifico La tana del serpente bianco (€ 21,00) di Bram Stoker, romanzo che coniuga le tipiche ambientazioni gotiche con il gusto dell’esotico, e l’avventuroso Gli uomini mostro (€ 21,00) di Edgar Rice Burroughs, indimenticato autore di Tarzan e qui alle prese con speculazioni che ricordano le bestie di Wells. Altrettanto classiche sono le riproposte che Coniglio editore manda in libreria nella sua nuova collana “ai confini dell'immaginario”: da una parte abbiamo la fantascienza di Schiavi degli invisibili (€ 13,50) di Eric Frank Russel, romanzo incentrato sull’idea che esistano controllori alieni invisibili sul nostro pianeta; dall’altra abbiamo il più classico del fantasy con  Il ciclo completo di Solomon Kane di Robert Howard, personaggio ultimamente celebrato anche dal cinema.
L’editore Delos, che vediamo spesso nella classifica dei libri più venduti con le opere fantasy-horror di Charlain Harris e di Raven Hart, ha pubblicato anche dell’ottima fantascienza, presentando nomi dell’editoria contemporanea quali Nancy Kress con La connessione Erdmann (€ 10,00), Charles Stross con Palinsesto (€ 10,00),  Robert Reed con La verità (€ 10,00), e Charles C. Finlay con Prigioniero politico (€ 10,00). Quest’ultimo è un ottimo autore, da tenere d’occhio per il futuro. Frenetica anche l’attività delle edizioni Della Vigna che nel 2010, fra le varie cose, manda in stampa la corposa antologia Pianeti di parole, antologia di "fantascienza della fantascienza" (€ 22,00) a cura di Stefano Carducci e Alessandro Fambrini e che raccoglie i racconti inediti di diversi autori tanto stranieri (Silverberg, Reed, McAuley, Bishop, Malzberg, Di Filippo fra i tanti) quanto italiani (Bellomi, Fazio, Carducci, Fambrini). Molti gli autori famosi a livello mondiale, tutti presenti con racconti inediti; e I delitti dell'anatomista di Bruno Vitiello, autore dalla indubbia competenza storica che qui utilizza per scrivere un noir ambientato nella Firenze cinquecentesca con Michelangelo e Leonardo nei panni di detective. Da evidenziare anche la nascita, sempre per le edizioni Della Vigna, della collana di saggistica asSaggi, della quale i primi volumi spaziano nel campo della cinematografia: Quando al cinema c'è Star Wars (€ 22,50) di Giovanni Mongini e Nicola Vinello, e i primi 2 volumi della Science Fiction All Movies enciclopedia della fantascienza per immagini di Giovanni Mongini: Vol. 1 #, AAA-ALY (€ 14,00) e Vol. 2 AMA-AZT (€ 13,00).
Parlando di classici moderni, Elara Libri di Bologna nel 2010 continua la pubblicazione della serie di Dumarest di E. C. Tubb ormai giunta con  I quattro soli di Dumarest (€ 35,00) al quarto volume antologico, cioè al sedicesimo romanzo, mentre Editore Profondo Rosso di Roma manda in stampa l’atteso, ma passato un po’ sottosilenzio, San Leibowitz e il papa del giorno dopo (€ 23,00) di Walter Miller, seguito del famosissimo Cantico per Leibowitz.
Passando all’horror, l’editore romano Gargoyle, anche nel 2010 ha fatto ottime scelte editoriali e fra i vari titoli, tutti meritevoli di essere letti dagli amanti del terrore, ricordiamo almeno Mary Terror (€ 16,00) Robert McCammon, storia di rivolta urbano, fra politica e sadismo, e il gotico Tecniche di resurrezione (€ 18,00) di Gianfranco Manfredi, grande e poliedrico (è stato cantante, regista, sceneggiatore) autore italiano ultimamente tornato alla narrativa con impegnativi romanzi di grande impatto, anche emotivo.
Passiamo ora al mercato anglo-americano, da sempre di riferimento per la science fiction. Parlando di fantascienza, cominciamo con l’inglese Iain Banks che pubblica  Surface Detail (Orbit, £18.99), romanzo che coniuga fantascienza, thriller e azione, ambientato in quella che rimane la sua più celebre creazione, e cioè l’universo della Cultura (una parte dei romanzi della serie sono stati pubblicati anche da noi). Decisamente verso il thriller è invece l’ultimo romanzo di John Barnes, Directive 51 (Ace, $25,95), romanzo apocalittico che narra della fine della civiltà causata dalla distruzione dei materiali base della nostra società dei consumi. Apocalittico è anche il libro di  Henry Baum The American Book of the Dead (Backword Books, $13,95) incentrato sugli universi paralleli. Vicini alla fantascienza ortodossa sono invece le ultime creazioni di Greg Bear con Hull Zero Three (Orbit, $19,99) su un’astronave da lunghi viaggi nella quale un membro dell’equipaggio si risveglia inaspettatamente dal sonno criogenico, e di Ted Chiang con The Lifecycle of Software Objects (Subterranean Press, $25,00). Greg Egan, forse il miglior scrittore di fantascienza oggi in circolazione, manda in libreria Zendegi (Night Shade Books, $24,95), ottimo romanzo sulla realtà virtuale, mentre Rudy Rucker raccoglie in un volume omnibus di oltre settecento pagine The Ware Tetralogy (Prime Books, $24,95), racconto cyber-antropologico sull’evoluzione robotica del prossimo futuro (da noi uscì a suo tempo su Urania, e non sarebbe male riproporla).
Fantascienza di esplorazione è quella che ci propongono Joe Haldeman, che con Starbound (Ace, $24,95) continua la serie iniziata con Marsbound del 2008, e Sandy Samson con Red Dust and Bones (Purple Sword Publications, $22,99); Peter F. Hamilton invece  termina la trilogia del Vuoto con The Evolutionary Void (Ballantine Del Rey , $28,00, e il primo volume della saga è appena stato pubblicato anche da noi). Sempre avventura spaziale sono Echo (Ace, $24,95) di Jack McDevitt, quinto di una serie conosciuta in parte anche in Italia, Betrayer of Worlds (Tor, $25,99) di Larry Niven ed Edward M. Lerner, romanzo prequel a quella che è la creazione più famosa di Niven, e cioè Ringworld, e che racconta la storia di uno dei protagonisti del romanzo originale, cioè Louis Wu. Dal sapore esotico, quasi alla Jack Vance, è Terminal World (Gollancz, £18,99) di Alastair Reynolds, ambientato in una immense città suddivisa in settori, ognuno con una propria cultura sociale.
Il thriller fantascientifico è un sottogenere molto apprezzato in un momento in cui la science fiction è sempre più contaminata. The Restoration Game (Orbit, £18,99) di Ken MacLeod coniuga fantapolitica e realtà virtuale, mentre Pleasure Model: Netherworld Book One (Tor, $14,99) di Christopher Rowley sembra uscito dagli hard boiled anni Cinquanta con un buon make-up fantascientifico, e risulta quindi molto divertente.

In quella zona grigia che è il mainstream fantascientifico, zone che ogni anno si fa più larga, nel 2010 troviamo Zero History (Putnam, $26,95) di William Gibson. L’autore ha spesso organizzato le proprie storie in trilogie (si pensi a quella di Negromante), e questo volume conclude la trilogia iniziata con L’accademia dei sogni. L’argomento è  quello del marketing del commercio virtuale, ma trattato con il fare avventuro di Gibson, che trasforma ogni storia in una quest. Da leggere. Come da leggere è il nuovo romanzo di Douglas Coupland, Generation A (Scribner, $24,00). Anche se, con quel titolo strizza inevitabilmente al romanzo del suo fortunatissimo esordio Generation X, questo suo nuovo libro parla del nostro futuro prossimo, un mondo inquinato dove le api si sono estinte e dove chi presenta punture di quegli insetti diviene una  celebrità, un mondo che viene descritto nei suoi aspetti più minimali attraverso le tante storie raccontate dai cinque protagonisti. Justin Cronin invece si rifà al genere letterario (ma soprattutto cinematografico, del momento, e cioè quello del vampirismo, e pubblica il voluminoso The Passage (Ballantine, $27,00), settecento pagine, e oltre, capaci di coniugare con atmosfere da post-11 settembre, un’America del futuro distopico, la bio-ingegneria genetica e, dicevamo, i vampiri, che sono il frutto di una mutazione accidentale e in pochi anni quasi distruggono l’intero genere umano. È indubbiamente un romanzo importante, e ci auguriamo che venga tradotto anche da noi. Altrettanto voluminoso è l’ultimo libro di Rick Moody The Four Fingers of Death (Little, Brown and Company, $25,99). Il romanzo, vonnegutiano già nelle intenzioni (la dedica), racconta sia la storia dello scrittore Crandal, che vive in un’america del futuro, sia la storia che lui scrive, la novelizzazione del remake di un vecchio film di fantascienza di Ed Wood. Indubbiamente satirico e divertente. Il mondo della scrittura compare anche in He Walked Among Us (Tor, $27,99) di  Norman Spinrad, dove un autore di fantascienza trasforma un santone del futuro in una superstar. Molto meno divertente è invece la distopia cronica di Fay Weldon Chalcot Crescent (Europa Editions, $15,00), romanzo catastrofico di un’Inghilterra del lontano futuro allo sfascio.
Una ristampa in un’edizione molto più accessibile è invece l’ultimo inedito di John Wyndham Plan for Chaos (Penguin, £8;99). Il classico autore inglese di fantascienza, qui è alle prese con una storia thriller scritta durante gli anni Quaranta ma rimasta inedita per più di sessant’anni a causa del crescente successo del suo autore nel campo della fantascienza catastrofica. La storia è una detective story: Johnny Farthing deve investigare su una serie di morti misteriosi, tutte donne, e tutte incredibilmente somiglianti alla sua fidanzata: Il romanzo è un tour de force surreale che coniuga la storia di investigazione alla fantascienza.

Il fantasy, nella sua accezione più ampia, la fa da padrone nel mercato americano, e qui citeremo solo qualcuno fra I titoli più interessanti, a cominciare da The Taborin Scale (Subterranean Press, $35,00) di Lucius Shepard e appartenente alla serie delle storie del Griaule, alcune pubblicate anche in Italia; poi The Infinities (Knopf, $25,95) di John Banville, storia di un matematico raccontata dagli dei dell’Olimpo; e The Sorcerer's House (Tor, $24,99) di  Gene Wolfe che riprende il tema della casa infestata. Il delicato e surreale Yann Martel, autore conosciuto anche da noi, pubblica Beatrice And Virgil (Spiegel & Grau, $24,00) romanzo che dietro una favola letteraria cela l’orrore dell’Olocausto. Di altro tenore è invece il lovecraftiano Kraken (Ballantine, $26,00) di China Miéville, mentre più vicino allo steampunk è Behemoth (Simon Pulse, $18,99) di Scott Westerfeld, seguito del volume appena uscito in Italia da Einaudi.
Brevemente passiamo all’horror: Mario Acevedo, che con le sue storie sexy-horror assomiglia sempre più ad una versione letteraria di Quentin tarantino, quest’anno manda in libreria Werewolf Smackdown (Eos, $14,99), quinto volume della fortunata serie  sui soldati-zombie, evidente satira dell’America post-Iraq. Ancora zombi nella bella antologia curata da Stephen Jones Zombie Apocalypse! (Robinson Publishing, £7,99) e nella quale diversi autori si cimentano in uno scenario commune, quella di una Londra contagiata da un’antica piaga capace di trasformare le persone in mostruosi carnivori. Gli autori di questo concept-book sono, fra gli altri, Christopher Fowler, Kim Newman, Paul McAuley, Peter Crowther. Più tradizionale è Horns (William Morrow, $25,99) di Joe Hill, che come tutti sanno è il talentuoso figlio di Stephen King, ormai quasi più bravo del padre, come tradizionale, ma non certo meno inquietante, è la preziosa raccolta Shirley Jackson: Novels and Stories (Library of America, $35,00) che riunisce in un unico volume, fra gli altri, classici dell’inquietudine come La casa degli invasati e La lotteria.

Fra le antologie, nel 2010, oltre alla regolare e immancabile  raccolta dell’anno precedente edita da Gardner Dozois The Year's Best Science Fiction: Twenty-Seventh Annual Collection (St. Martin's Press, $40,00), impedibile per chi vuole rimanere aggiornato su dove va la fantascienza contemporanea, possiamo ricordare l’accademica The Wesleyan Anthology of Science Fiction (Wesleyan University Press, $39,95) a cura di Arthur Evans e Istvan Csicsery-Ronay,  che raccoglie I testi brevi che hanno fatto la storia del genere, dalla fine dell’Ottocento ad oggi.
Per la saggistica specializzata, settore praticamente sconosciuto in Italia, ma che nei paesi anglosassoni non manca di essere presente con testi competenti e interessanti, ricordiamo lo studio di Helen Merrick The Secret Feminist Cabal (Aqueduct Press, $19,00) sulla società fantascientifica al femminile nelle sue più diverse varianti (editoria, fandom, accademia); e The Anatomy of Utopia di Karoly Pinter (McFarland & Company, $38,00) analisi critica dell’opera di Tommaso Moro, Wells, Huxley e Clarke. Appartenente al settore delle biografie sono invece  This Is Me, Jack Vance! Or, more properly, this is "I" (Subterranean Press, $40,00) autobiografia del grande Jack Vance, e Listen to the Echoes: The Ray Bradbury Interviews (Stopsmiling Books, $18,95), interviste all’autore di Cronache marziane raccolte da Sam Weller.
Più vicino alla curiosità è invece Packing For Mars The Curious Science of Life in the Void (W.W.Norton & Company, $25,95) dove Mary Roach raccoglie le più improbabili stranezze progettate in campo astronautico per il vivere quotidiano di quello che si credeva essere il nostro futuro.
Terminata la carrellata delle uscite librarie, ricordiamo brevemente gli avvenimenti fantascientifici del 2010. Con i premi per l’editoria fantascientifica, cominciamo da quello più importante, l’Hugo, consegnato durante la sessantottesima Convention di Melbourne, Australia a China  per il suo The City & The City, romanzo che ha fatto incetta di onorificenze conquistando anche il World Fantasy Awards e il British SFAward Award, premio che è andato anche al racconto di Ian Watson e Roberto Quaglia “The Beloved of My Beloved”. Il Bram Stoker Awards, per il miglior romanzo horror è andato a Audrey's Door di Sarah Langan. Da noi, il Premio Italia è stato assegnato al ponderoso Il quinto principio di Vittorio Catani uscito su un numero speciale di Urania.
Infine un pensiero per le personalità che ci hanno lasciato nel 2010. Cominciamo da Ralph Vicinanza, che appena sessantenne è morto nel sonno. Vicinanza è stato uno degli agenti letterari più influenti degli ultimi trent’anni avendo fra i suoi clienti autori di best seller mondiali come Stephen King, Terry Pratchett, Frank Herbert, Robert Heinlein. Poi non possiamo non ricordare l’ottantanovenne William Tenn, celebre autore della social science fiction che molti ricordano per Gli uomini nei muri; e il poliedrico novantenne inglese E.C. Tubb, autore della serie di Dumarest e di Capitan Kennedy. Improvvisa è stata poi la scomparsa di Kage Baker, autrice che Urania ci ha fatto conoscere negli ultimi anni. Nel mondo dell’illustrazione fantascientifica, ricordiamo la morte del grandissimo Frank Frazetta, le cui illustrazioni di classici come la serie di Conan hanno contribuito a creare un immaginario sia nell’illustrazione fantasy che nella cinematografia, e di Carl Schoenherr, illustratore di Analog (sua la celeberrima copertina di Dune).


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Bruce McAllister
LA SETTIMA FIGLIA



Il ragazzo americano viveva con i genitori in una villetta sulla collina sopra la baia, dove i giovani ballavano la notte, ridendo e gridando; le loro voci gli arrivavano attraverso gli ulivi quando si addormentava.
A volte si domandava quale fosse la vera storia.
Il mar Ligure sotto di lui, nella notte, dove molto tempo prima era affogato un poeta. Le risa e le grida sotto di lui soffocavano i sussurri del mare e il mormorio di quel poeta.
La faccia infantile che vedeva riflessa nello specchio quando aveva il coraggio di guardarsi. Le cose che aveva realizzato dipingendo e modellando l’argilla, con le parole che solo lui conosceva. Non importava, diceva – era tutto vero, anche se non lo era – ma il problema era sempre là, quando si addormentava e si svegliava.
Nei cassetti superiori del suo comò, con tutti i colori della creta, aveva creato un mondo e lo conosceva alla perfezione.
"Le sette figlie di Satana", lo chiamava. Aveva modellato con molta cura la valle, la foresta e i sette villaggi dove erano cresciute le figlie di Satana, che poi li avevano abbandonati. Gli uomini dei villaggi avevano paura delle figlie, benché belle, perché sapevano chi fossero. Le figlie non possedevano doni straordinari, nessun potere da strega né tendenze demoniache, ma gli uomini dei villaggi percepivano l'attesa.
L’attesa di lui. Tutta la valle e le montagne che la circondavano lo stavano aspettando. Se trattenevi il respiro e stavi ben fermo, potevi sentirlo anche tu: il ticchettio del grande orologio di Dio. L'ora non aveva importanza. Quello che contava era che il ticchettio non si fermasse mai. Gli uomini lo sentivano quando, col cuore in subbuglio, guardavano i volti delle sette figlie, e non facevano un passo verso di loro. Le figlie non capivano.
Non potevano sentire il ticchettio, non sapevano quanto gli uomini le temessero.
Le figlie si occupavano sempre più di se stesse e gli uomini parlavano sempre di meno. Un bambino poteva correre da una ragazza e dirle qualcosa, porgerle qualcosa, portar via qualcosa o anche giocare con lei. Ma gli adulti non avevano questa possibilità. Le figlie crescevano più cupe, con le loro facce bianche e le labbra rosse, se una volta sembravano sette belle addormentate, ora apparivano simili a fantasmi evanescenti.
Tornerà, sussurravano gli abitanti del villaggio.
All'interno della casa di paglia, dove erano cresciute e dormivano fianco a fianco sulle stuoie nel pavimento di terra battuta, avevano una bambinaia sorda a vegliare su di loro. La bambinaia non poteva sentire il ticchettio, e stava diventando cieca ogni anno di più.
Ogni figlia aveva un cassettone costruito anni prima, quando dagli uomini del villaggio quando erano piccole. In ciascuno, ogni figlia aveva sette cassetti e nel primo, fatto d’argilla e arredato dal figlio della nutrice (che viveva con loro, ma dormiva in una stanza separata), c’era una replica del villaggio in cui la figlia era stata concepita e vissuta. Gli abitanti del villaggio sapevano che a tarda notte il piccolo popolo di argilla, gli omuncoli, avrebbe preso vita grazie a una forza soprannaturale e avrebbe attraversato il villaggio d’argilla fino a ogni cassetto, per intrattenere la figlia solitaria a cui apparteneva.
Un giorno il ragazzo, che non era di questa valle, ma ne conosceva la storia, trovò la più piccola e la più bella delle figlie e si fermò davanti a lei, grande e allampanato nel suo vestito scuro, il volto in fiamme dall’emozione. Lei, si vedeva, era spaventata quanto lui.
«Sei mio padre?» chiese.
«No» rispose lui «Sono un ragazzo.»
Lei annuì, sorrise appena e si lasciò prendere in braccio, danzando per il selciato della piazza del paese alla musica che non veniva dalle chitarre o da altri strumenti, ma dalla gola degli abitanti del villaggio che stavano a guardare e iniziò il ronzio, il suono riempiva la valle come la voce di Dio.
In poco tempo ogni figlia ballava e l'orologio smise il suo ticchettio.

Quando le note di vecchi canzoni del 1950, come "Diana", "Bye Bye Love" e "Venus", assieme le altre, giunsero al ragazzo dal Lido, la pista da ballo all'aperto nella baia proprio sotto la finestra della sua camera, egli si sdraiò sul letto, pensando a quei ragazzi e quelle ragazze – poco più grandi di lui, che flirtavano in un'altra lingua – che ballavano.
Non voleva alzarsi. Non voleva accendere la luce. Voleva ascoltare le canzoni fino a quando si fosse addormentato. Mentre dormiva sognò a lungo, sogni avventurosi in posti strani, eroi e creature da leggenda, ma anche sogni più brevi sopra le colline coperte di vipere, i funerali dei suoi parenti e una piccola barca nella tempesta, un naufragio, e furono questi sogni più brevi che si avverarono.
Perché accadde non lo sapeva. Non aveva senso, ma cosa aveva fatto nella vita?
Il sogno più lungo diventò molte storie, che scrisse interamente e tenne nascoste ai suoi genitori nel cassetto proprio sotto le sette figlie, anch’esse tenute nascoste.
Quelli che si avverarono non li scrisse mai. Lo spaventava troppo il farlo. Quando si fosse svegliato dal suo sogno, sarebbe andato a scuola con gli amici del villaggio, o verso il molo, da solo, a cercare le conchiglie tra i coloratissimi pesci nelle reti, o a camminare lungo la strada sterrata che portava da casa sua, oltre le mura, con le impavide lucertole verdi, fino all'Hotel Byron.

Un giorno i suoi genitori dissero: «Questo albergo è troppo nuovo. Non può essere dove sono vissuti.» «Chi?» chiese il ragazzo.
«Mary Shelley e suo marito Percy», risposero. «La donna che ha scritto quel libro. Quello sul mostro di Frankenstein.» Non molto tempo dopo avrebbe saputo da qualcuno che Percy, suo marito, il poeta, era annegato in una notte di tempesta, nella sua piccola barca, mentre era di ritorno da Viareggio, lungo la costa, nel tentativo di raggiungere quel villaggio.
Quando il ragazzo tornò nel suo paese e i sogni – quelli che si erano avverati – smisero, non scrisse più racconti né modellò oggetti d’argilla da mettere nei cassetti. Seppe che  anche quella donna, Mary, aveva sognato il suo sogno – quello che era diventato il suo libro amaro e terribile – in quel piccolo villaggio di pescatori.
Certe volte, anni dopo, quando diventò uomo ed ebbe moglie e figli, cercò di ricordare cosa fosse successo al cassetto e alle sue montagne, alla valle, ai villaggi e alle persone di argilla. "Le sette figlie di Satana", come l’aveva chiamato. Questo se lo ricordava, ma non riusciva a rammentare cosa fosse successo all'argilla. Che importava?
Non erano le persone – tua moglie, i tuoi figli – ciò che contava? Poi, una notte, mentre era sdraiato accanto alla sua moglie, lei mise il braccio su di lui e gli sussurrò al buio: «Grazie per averci liberate», e lui seppe che storia era e che non ci sarebbe mai stato niente più reale di questo. Perché è l'amore che rende reali le cose.
(traduzione di Carlo Bordoni)

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Fernando Sorrentino
LA LAGUNA DI CUBELLI

A sud est della pianura di Buenos Aires si trova la laguna di Cubelli che è familiarmente conosciuta col nome di “lago del Caimano Ballerino”. Questo nome popolare è immediato ed espressivo, ma — così come è stato stabilito dal dottor Ludwig Boitus — non risponde alla realtà.
In primo luogo, “laguna” e “lago” sono casi idrografici distinti. Nel secondo, benché il caimano —Caiman yacare (Daudin), della famiglia Alligatoridae— sia tipico dell’America, si dà il caso che questa laguna non costituisca l’habitat di nessuna specie di caimano.
Le sue acque sono estremamente salubri, e la sua fauna e la sua flora sono quelle abituali delle varietà che si sviluppano nel mare. Non può, per tal motivo, considerarsi anomalo il fatto che in questa laguna si trovi una popolazione di circa centotrenta coccodrilli marini.
Il “coccodrillo marino”, ossia il Crocodilus porosus (Schneider), è il più grande di tutti i rettili viventi. Suole raggiungere una lunghezza di circa sette metri e pesare più d’una tonnellata. Il dottor Boitus afferma d’aver visto, sulle coste della Malesia, vari esemplari che superavano i nove metri e, in effetti, ha scattato e fornito fotografie che intendono provare l’esistenza di esemplari di tale grandezza. Essendo però stati fotografati in acque marine, e senza punti esterni di riferimento relativo, non è possibile determinare con precisione se questi veramente avessero la dimensione che loro attribuisce il dottor Boitus. Sarebbe assurdo, è chiaro, dubitare della parola d‘un ricercatore tanto serio e dalla carriera tanto brillante (pur se dal linguaggio un po’ barocco), ma il rigore scientifico esige convalidare i dati secondo metodi inflessibili che, in questo specifico caso, non sono stati posti in pratica.
Succede, tuttavia, che i coccodrilli della laguna di Cubelli possiedono esattamente tutte le caratteristiche tassonomiche di quelli che vivono nelle acque prossime all’India, alla Cina e alla Malesia, onde spetterebbe loro in tutta legittimità il tassativo nome di coccodrilli marini o Crocodili porosi. Esistono, però, alcune differenze che il dottor Boitus ha diviso in caratteristiche morfologiche e caratteristiche etologiche.
Tra le prime la più importante (o, a dir meglio, l’unica) è la dimensione. Così come il coccodrillo marino dell’Asia raggiunge i sette metri di lunghezza, quello che abbiamo nella laguna di Cubelli arriva appena, nel migliore dei casi, a due metri, misura che si ottiene a partire dalla punta del muso fino alla punta della coda.
Riguardo alla sua etologia questo coccodrillo è, secondo Boitus, “incline ai movimenti musicalmente concertati” (o, più semplicemente, “ballerino”, com’è chiamato dalle persone del villaggio di Cubelli). È largamente risaputo che i coccodrilli, stando a terra, sono tanto inoffensivi quanto uno stormo di colombe. Riescono a cacciare ed uccidere solo se si trovano nell’acqua, che è il loro elemento vitale. In esso afferrano la preda tra le loro mandibole dentate e, imprimendo ad essi stessi un veloce movimento di rotazione , la fanno girare sino ad ucciderla; i loro denti non hanno funzione masticatoria ma sono esclusivamente disegnati per imprigionare ed ingerire, intera, la vittima.
Se ci portiamo sulle rive della laguna di Cubelli e mettiamo in funzione un riproduttore di musica avendo preventivamente scelto un brano adatto al ballo, vedremo in seguito che —non diciamo tutti— quasi tutti i coccodrilli escono dall’acqua e, una volta sulla terra, cominciano a ballare al ritmo della melodia in questione.
Per tali ragioni anatomiche e comportamentali questo sauro ha avuto il nome di Crocodilus pusillus saltator (Boitus).
I loro gusti risultano essere ampi ed eclettici ed essi non sembrano far distinzione tra musiche esteticamente valide ed altre di scarso pregio. Accolgono con uguale allegria e buona predisposizione tanto composizioni sinfoniche per balletto che ritmi popolari.
I coccodrilli ballano in posizione eretta solo poggiando sulle zampe posteriori di modo che, in verticale, arrivano ad una statura media d’un metro e settanta centimetri. Per non strascicare la coda sulla pista, la sollevano ad angolo acuto mettendola quasi parallela al dorso. Allo stesso tempo le estremità anteriori (che ben potremmo chiamare mani) seguono il ritmo con diversi gesti assai simpatici, mentre i denti giallastri sfoggiano un enorme sorriso di ottimismo e soddisfazione.
Alcuni del villaggio non sono affatto attratti dall’idea di ballare con dei coccodrilli, ma tanti altri non condividono questo rifiuto e certo è che, ogni sabato all’imbrunire, si vestono di gala e confluiscono sulle rive della laguna. Il club sociale e sportivo di Cubelli ha lì installato tutto il necessario perché le riunioni risultino indimenticabili. Le persone possono anche cenare nel ristorante edificato a pochi passi dalla pista da ballo.
Le braccia del coccodrillo sono poco estese e non arrivano a toccare il corpo del partner. Il cavaliere o la dama, che a seconda dei casi balla col coccodrillo femmina o col coccodrillo maschio prescelto, posa ognuna delle sue mani su una spalla del proprio compagno. Onde effettuare questa operazione conviene distendere al massimo le braccia e mantenere una certa distanza; poiché il muso del coccodrillo è assai pronunciato, la persona dovrà avere la precauzione di piegarsi il più possibile all’indietro: benché in poche occasioni si siano registrati episodi sgradevoli (come ablazione di narice, rottura di globi oculari o decollazione), non si deve scordare che, poiché nella sua dentatura s’incontrano resti cadaverici, l’alito di questo rettile è ben lungi dall’essere attraente.
Tra i cubelliani corre leggenda che, sull’isoletta che occupa il centro della laguna, risiedano il re e la regina dei coccodrilli che, a quanto pare, non l’hanno mai abbandonata. Si dice che ambedue gli esemplari abbiano oltrepassato i due secoli di vita e, forse a causa dell’età avanzata, forse per mero capriccio, non hanno mai voluto partecipare ai balli indetti dal club sociale e sportivo.
Le riunioni non vanno molto oltre la mezzanotte poiché a quell’ora i coccodrilli cominciano a stancarsi e probabilmente ad averne a noia; d’altra parte viene loro fame e, siccome l’accesso al ristorante è a loro vietato, desiderano tornare in acqua in cerca di cibo.
Quando viene il momento in cui nessun coccodrillo è rimasto sulla terraferma, le dame e i cavalieri fanno ritorno al villaggio alquanto stanche ed un po’ tristi, ma con la speranza che forse al prossimo ballo, o forse in qualche altro più in là nel tempo, il re o la regina dei coccodrilli, o forse ambedue contemporaneamente, abbandonino per qualche ora l’isoletta centrale e intervengano alla festa. Con questa aspettativa ogni cavaliere, benché si guardi dal manifestarlo, nutre l’illusione che la regina dei coccodrilli lo scelga come compagno di ballo; lo stesso avviene con tutte le dame, che aspirano a formar coppia col re.

Nota. Prima pubblicazione in lingua originale in: Cuadernos del Minotauro (direttore: Valentín Pérez Venzalá), anno IV, n. 6, Madrid, 2008, pagg. 117-120. La presente traduzione italiana è stata condotta su una più recente rielaborazione del testo operata dall’autore e presenta solo leggere modifiche rispetto a quella summenzionata. (Traduzione © e nota di Mario De Bartolomeis)

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Andrea Coco
IL GIORNO DOPO… 

Siamo dei ragazzi veramente fantastici… peccato che gli altri ci vedano come il fumo negli occhi.
Beh, a dire il vero non possiamo dargli tutti i torti; ultimamente abbiamo combinato un pandemonio. Per colpa nostra, l’Umanità ha sofferto pene indicibili.
Ma cosa possiamo farci? Questa è la nostra natura, ci piace divertirci alle spalle del prossimo.
Sì, sì lo ammetto: siamo un po’ cattivi. No, forse è meglio dire feroci o forse…spietati! Sì, dopo tutto quello che è successo, spietati è la definizione migliore.
Ma perché preoccuparsi? E’ stato solo un gioco, appena rientrati a casa, ogni cosa andrà al suo posto. Ma, ribadisco la colpa non è tutta nostra. E’ l’occasione che fa l’uomo ladro e per noi tre è sempre stato così.

Tutto è incominciato stanotte. Eravamo usciti per svaligiare la villa isolata di un riccastro, quando nella radura del bosco abbiamo incontrato un Ufo.
Il “marziano” indossava una tuta bianca e stava armeggiando attorno ad un cilindro metallico bianco opaco, alto più di tre metri e lungo dodici.  
Era così preso dal suo lavoro che non si è accordo della nostra presenza, tre figure, che lo osservavano meravigliate, appena nascoste dalla vegetazione. Noi, increduli, pensavamo che fosse un tecnico giunto in quel posto isolato per montare una qualche diavoleria elettronica, un antifurto, oppure un malavitoso fermatosi per scaricare nel fiume qualche porcheria. Quando ci ha visto si è presentato come il “Crononauta”, un navigatore del tempo, arrivato nella nostra epoca per assistere in prima persona ad alcuni eventi importantissimi. Un terrestre del futuro, insomma! 
Gli abbiamo riso in faccia, dandogli del pazzo e lui, per nulla impressionato, ci ha invitato ad entrare nella Crononavetta per fare con lui un giro di prova.
Era una vera fortuna che fosse ancora lì, ha spiegato, un guasto la aveva trattenuto nella nostra epoca, altrimenti sarebbe già tornato a casa, nel suo tempo, nel nostro futuro.
Gentile e sorridente, ha insistito perché andassimo tutti e quattro a fare un tour nel passato e solleticati nel nostro punto più debole, la curiosità umana, non abbiamo resistito. Dopotutto eravamo convinti che quel coso non si sarebbe mai alzato o spostato nemmeno di un centimetro. Eravamo sicuri che si trattasse di uno scherzo, di un programma televisivo e che, una volta entrati all’interno della Crononavetta, avremmo trovato le telecamere ad accoglierci ed invece…era tutto vero!
Niente telecamere, ma in compenso tante apparecchiature dalle forme mai viste.
“Allora dove volete andare?” ha chiesto con una punta di ironia.
Stefano gli ha detto che voleva vedere l’antica Roma, quella di Ottaviano Augusto e il Crononauta ci suggerito qualcos’altro, partecipare ad un evento…insomma assistere alla Grande persecuzione avvenuta ai tempi dell’imperatore Diocleziano. Detto e fatto: tutti e quattro nel Colosseo a fare il tifo per le belve che sbranavano i cristiani.
E’ toccato, quindi, a Mario che ha espresso il desiderio di voler assistere alla scoperta dell’America, da parte di Cristoforo Colombo. Il Crononauta gli ha proposto di assistere a qualcosa di più “vivace”, la Caduta di Tenochtitlán per mano dei Conquistadores spagnoli capitanati da Hernan Cortés.
Ah, che spettacolo! I combattimenti, le fiamme… che edifici splendidi, peccato che siano andati distrutti…quanto oro!
Infine è giunto il mio turno (a proposito io mi chiamo Antonio) e, per non essere da meno - Mario ha protestato dicendo che io ero un copione -, ho preteso una cosa minima, da poco: essere presente allo sbarco sulla Luna. In questo modo avrei potuto verificare con i miei occhi se l’uomo fosse veramente andato fin lassù.
Stranamente sono stato accontentato, senza ricevere delle controproposte... gli sarà piaciuta la mia idea!
Un attimo dopo la Crononavetta orbitava attorno al satellite. Abbiamo persino scattato delle foto dell’Apollo 11 e, nascosti dall’oscurità, una sequenza della passeggiata di Armstrong ed Aldrin sulla superficie lunare.
Tornati nella nostra epoca, il Crononauta ha avuto un’idea.
“Perché non facciamo un salto nel futuro?” ha suggerito. “Devo testare delle nuove apparecchiature. Se mi aiutate darò a ciascuno di voi ventinove monete d’argento dell’età di Tiberio.”
E noi, galvanizzati, gli abbiamo risposto subito di sì.
“Questa volta, però, non saremo dei semplici spettatori,” ha aggiunto, “Ma interverremo sul corso degli eventi, divertendoci a scombinarli. Tanto non accadrà nulla, perché, ritornando voi nel passato, annullerete quanto sta per avvenire. In caso contrario, gli effetti saranno permanenti.”
“Possibile?” gli ho chiesto.
“Eccome. Grazie a questa strumentazione, la Macchina del Destino. State a guardare: ecco una cerimonia molto importante, decisiva per il futuro dell’Umanità.”
Nel Cronovisore della Macchina si era materializzata l’Assemblea Generale della Confederazione Atlantica. Una riunione fondamentale perché, come aveva spiegato il Crononauta, i deputati di lì a poco avrebbero eletto un uomo giusto, un leader che avrebbe fatto la pace con il Califfo della Repubblica Islamica, scongiurando una guerra feroce.
“Ma ciò non accadrà>> aveva annunciato trionfante. “Guardate che fine fa il salvatore della pace. Con quest’arma lo faccio fuori.”
Afferrata una pistola laser giocattolo, l’aveva puntata sul candidato che si trovava al centro dello schermo. Questi, all’improvviso, come raggiunto da un colpo invisibile, si era accasciato sui banchi del parlamento.
“Ora dovranno eleggere il suo rivale, il nemico acerrimo del Califfo.”
Tranquillizzati dall’idea che, in futuro, quell’incidente non sarebbe mai avvenuto, abbiamo scelto, tra le opzioni previste dalla Macchina del Destino, quali disgrazie dispensare al genere umano.
Io ho lanciato alcune bombe nucleari e batteriologiche sulle città di entrambi gli schieramenti, in modo da spingere le due nazioni a combattersi e ho brindato all’olocausto, bevendo in compagnia dell’ottimo champagne.
“Tu, invece, Mario l’ha fatta bella, eh? Eh?” ho commentato malignamente ad alta voce. “Dai su non ti schernire. Ci vuole una bella fantasia per combinare quello che hai fatto.”
Mario ha annuito sorridendo di gusto.
“In effetti…” si è limitato a dire mentre negli occhi si accendeva una luce maligna, che filtrava attraverso le volute di fumo della sigaretta.
Mario aveva scatenato le forze della natura, terremoti, tsunami, eruzioni, tempeste, provocando su tutto il pianeta carestie e disastri ambientali, costringendo milioni d’individui a lasciare i propri paesi d’origine. In questo modo erano iniziati degli esodi biblici che avevano scatenato nuove guerre.
Stefano, invece, aveva lavorato di fino.
“Certo che solo tu potevi inventarti quelle malattie…” ho osservato.
“Così imparano a fornicare,” ha spiegato lui, mordendosi il dorso del dito indice della mano sinistra.
Stefano, un seduttore di donne sposate - si dice che ne avesse messa incinta più di una – aveva scelto di vessare l’umanità, colpendola sotto la cintura.
Nuove malattie, veneree ma non solo, si erano diffuse ovunque e, cosa terribile, i loro effetti si manifestavano spesso a distanza di mesi, con il risultato che l’intero genere umano ne veniva contagiato…

Ora però il viaggio sta per terminare. Il Crononauta è in plancia a guidare la navetta mentre noi tre siamo alloggiati nella cabina passeggeri. A bordo regna il silenzio, interrotto solo dal ronzio delle apparecchiature e da qualche vibrazione prodotta dai motori. Siamo così presi dai nostri pensieri che non abbiamo voglia di parlare. Io sto riflettendo su quanto è accaduto, Stefano sonnecchia e Mario, con la testa appoggiata alla parete, guarda la porta della Crononavetta. Non vede l’ora che si apra.
“Bene,” commento ad alta voce, sfregandomi le mani, “Dovremmo essere quasi giunti alla meta. Crononauta, Crononauta! CRONONAUTA?” lo chiamo quasi urlando.
Il Crononauta, convocato con insistenza, giunge nella cabina passeggeri.
“Eccomi!” risponde tranquillo, ma con un tono di voce leggermente infastidito. “Che cosa c’è?”
“Quanto manca al 21 dicembre 2012?”
“Poco, ma prima volevo mostrarvi la mia epoca. Spero che non abbiate nulla in contrario,” aggiunge con una punta di sarcasmo.
“Ma se avevi detto che non potevamo andare nel futuro, altrimenti….”
“Era una bugia. Comunque siamo giunti. Non volete vedere che cosa è diventata la Terra?”
Tutti e tre, spiazzati dalla novità, non vogliamo affatto scendere dal mezzo, ma lui torna alla carica e disarma la porta, che silenziosamente si apre, facendo entrare dentro la Crononavetta la luce del giorno, opaca, priva di calore.
“Andiamo?” domanda con fare minaccioso ed una forza invisibile, la paura credo, ci spinge a uscire.
Il mezzo è atterrato al cento di una valle enorme, piena all’inverosimile di esseri umani di ogni razza, sesso ed età. Il nostro arrivo è passato inosservato perché tutti stanno guardando nella medesima direzione. Sembra che attendano qualcosa o qualcuno.
“Dove ci troviamo?” chiedo impaurito da una simile adunanza, ho la sensazione che sto per assistere a qualcosa che ho già visto o letto da qualche parte.
“E’ la valle di Giosafat,” risponde con un tono di voce crudele.
“E noi cosa ci stiamo a fare?” chiede Mario.
Il Crononauta ride, una risata lugubre che ci gela il sangue.
“Dopo tutto quello avete combinato, vi meravigliate di essere qui?”
“E cosa avremmo fatto di male?>> domanda Stefano.
“Niente,” risponde sarcastico. “Avete semplicemente partecipato alla distruzione del mondo, alla fine dei tempi. E non mi dite che non siete stati voi.”
“Ma era un gioco,” protesto.
“In certe cose il pensiero vale quanto l’azione,>> risponde lui del tutto indifferente alla mia risposta.
Una Luce fortissima illumina la valle, provocandomi un capogiro. Non è la luce in sé a farmi stare male, ma quanto Lei mi comunica. Solo ora sono pienamente consapevole di tutto il male che abbiamo causato.
«Crononauta,” chiedo fiaccamente, “Ma che giorno sarà mai questo?”
E lui serafico: “Il giorno dopo l’Apocalisse, ovvero il Giorno del Giudizio Universale.”

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Roberto Barbolini 
IN VINO VERITAS

Il mare di Omero è rosso come il vino, non l’ho più dimenticato dai tempi della scuola. Rosso granata era la maglia del Grande Torino che ci scippò lo scudetto nel Quarantasette. Rosso Magenta è il colore del Risorgimento, rosso porpora quello della vergogna; rosso ciliegia è il naso di Geppetto, rosso corsa la Ferrari rombante. Rosso marsala è il vino dell’eucaristia che assaggiai di nascosto quando facevo ancora il chierichetto.
Rosso violaceo, con riflessi prugna e malva, è il lambrusco che mi frizza nel bicchiere.
Seduto di fronte a me all’altro capo del tavolo, Angelo, il mio socio in affari, sta affondando i denti in un bel filettino al sangue con contorno di patate al forno insaporite da aglio e rosmarino.
Mentre mi verso un altro goccio, guardo perplesso il suo bicchiere: è ancora pieno in modo sconveniente. Finalmente lo solleva, lo fa ruotare lentamente, alla maniera dei sommelier che si vedono in televisione, e con quel gesto ieratico che conosco così bene se lo porta all’altezza del naso. Per un po’ resta così, le narici dilatate, le pinne nasali vibranti al diapason finché, a poco a poco, sulla faccia gli si dipinge una lieve ma decisa espressione di disgusto.
 Faccio finta di niente e intanto mi rodo. Se non fosse per quella storia degli assegni a vuoto, che mi hanno costretto a un prelievo forzoso dalla cassa comune delle nostre cosiddette opere pie, adesso non dovrei starmene qui a ungerlo come una supposta.
  Mentre gli stappo controvoglia un Cannubi San Lorenzo di Rinaldi, provo quasi una gioia maligna nel dirgli per l’ennesima volta che ai forti bevitori di barolo come lui, condannati a invecchiare tristemente, se pure scampano alla cirrosi, la pelle diventa a poco a poco d’un allarmante colore grigiastro, piena di macchie rosso terracotta; mentre i grandi bevitori di lambrusco anche in tarda età sfoggiano una carnagione bianca e rossa come di pesca, da fare invidia a un putto di Rubens.
Tutto inutile. I suoi sciocchi pregiudizi enologici gli paralizzano le papille gustative, impedendogli di assaporare il bouquet fruttato -un misto di amarena e viola mammola- che ad ogni nuovo sorso mi canta nell’ugola.    
Per un po’ questa gradevole sensazione di andare in cimbali e galleggiare nell’aria come un dirigibile -da lassù le beghe del mondo assumono finalmente le giuste proporzioni, è per questo che tanti fedeli sognano ancora di andare in Paradiso- riesce a cancellare il timore che Angelo abbia scoperto i miei maneggi e il grosso ammanco da quella specie di cassa comune segreta, dove storniamo i fondi di cui si alimenta la nostra  cosiddetta «beneficenza personale».
«Vuoi un altro goccio di coca?» mi sfotte, continuando a centellinare con aplomb ostentato il suo barolo. E mi indica la bottiglia di lambrusco vuota.
Dev’essere la seconda o la terza che mi scolo.
Basta questa consapevolezza perché la mia testa incominci a girare. L’euforia di poco fa s’è dissolta in un baleno. Di colpo mi sento precipitare verso il basso, ostinatamente aggrappato al bicchiere, mentre il piombo d’una cena troppo pesante, mescolato ai fumi dell’alcol, mi si piazza tristemente sullo stomaco, intossicando le vene e intorpidendomi il cervello.
Sento il sangue salirmi alla testa mentre continuo a scendere a capofitto verso un gorgo color rosso rubino, inferno spumeggiante già pronto ad inghiottirmi. E il peggio è che intanto , come in un brutto sogno, continuo a vedere dal di fuori il mio corpo grassoccio che precipita a testa in giù, goffo e senz’anima come un burattino. La mia faccia, dapprima rosso porpora, passa via via allo scarlatto, al vermiglio, al Borgogna, al Bordeaux, al rosso liquoroso del marsala invecchiato: il mio vecchio vino della messa.
Dio mio, dio mio, che cosa mi sta succedendo? Aggrappato all’ultimo barlume della mia coscienza offuscata, come un naufrago alla chiglia rovesciata nel mare in tempesta, mentre  mi sforzo invano di biascicare una preghiera sento le ondate del mio odio per Angelo, vanamente mascherato per tutto questo tempo, crescermi dentro senza più dighe che le possano arginare. Finché un lampo color fosforo, zigzagando tra l’arancione e il porpora in mezzo ai cavalloni infuriati, illumina d’una luce spettrale la scena, come se l’occhio impassibile d’una cinepresa l’ avesse fissata in un attimo eterno con il fermo immagine.
Una calma quasi innaturale mi raffredda l’animo. Ma è una specie di bonaccia omicida, come la quiete nell’occhio del ciclone
Ormai l’ho capito. Se voglio evitare il carcere, risparmiando la vergogna d’uno scandalo a me stesso e all’Organizzazione di cui sono l’ultimo dei servi, non resta che una soluzione: far sparire il mio socio segreto. Per un Angelo che s’invola, non faticherò a trovare un apprendista cherubino che lo sostituisca. La sua scomparsa passerà quasi inosservata: da anni Angelo  vive solo e, per quanto ne so io, non ha ex mogli o parenti stretti in città, non parliamo poi di veri amici. Tranne me, naturalmente. O così crede lui.
Sto giusto finendo certi lavoretti giù in cantina. Visto che schifa il lambrusco, lo attirerò di sotto col pretesto di fargli assaggiare uno Château Chablis d’annata, che riservo per le occasioni speciali. Al momento giusto lo stordirò con il badile, poi lo trascinerò fino alla nicchia che s’apre in fondo alla parete. I muri sono insonorizzati e all’esterno non si sentirebbe neppure una cannonata. Ogni grido, ogni implorazione sarà vana: a nessuno salterebbe mai in mente di venirselo a cercare in un posto come questo. Resterà lì per sempre, dimenticato, come la statua inutile d’un santo. Al risveglio si ritroverà murato vivo. Come gli altri tre.
A quell’ora io sarò già in chiesa, a celebrare la prima messa del mattino.


Adriana Alarco de Zadra
IL VIANDANTE MALRIDOTTO

Un bel pomeriggio d’estate, eravamo nel bosco degli ulivi giocando a nascondino, dietro la vecchia casa della nonna, mentre i cugini più piccoli costruivano casette di canna e fango vicino alla pozza delle anatre.  Non immaginammo mai la sorpresa che ci aspettava prima che arrivasse la notte.  Assieme ai cugini Victor e Claudio, partecipavamo alle birichinate ed ai giochi con gli altri ragazzi della fattoria: Mango era figlio del cinese, il giallo padrone dell’unico negozio, che portava i suoi occhietti allungati ed un sorriso amichevole.  Poi c’era Pepa, l’orgoglio di suo padre, il capo squadra dalla pelle ramata che ci estasiava le domeniche colla sua chitarra. Giocava con noi anche il piccolo Fito, figlio del Pagliaccio e nipote della nera Ignazia, il quale non conobbe mai suo padre perché fu concepito  una notte di Carnevale, quando quello portava  una maschera.
Eravamo tutti sudati dal correre e giocare, mentre, dietro il pollaio della nonna, cantava il gallo sopra il convolvolo di campanule blu.  Il gelsomino, intanto, profumava sotto il sole bruciante.  Le dune fumavano.  I carrubi si profilavano storti e languidi nella nebbia che si era alzata all’ora della siesta.  Si sentiva il gracidare delle rane, il canto stentato delle oche in mezzo al nostro schiamazzo.  Victor, il più birichino, era intento a costruire chi sa ché, senza arrampicarsi sugli alberi come faceva in genere con quelle gambe allampanate, ogni giorno più magre e lunghe.  Era appena uscito dal “rosolio” come lui lo pronunciava, che non era un liquore per malati come volevamo far credere alla vecchia Ignazia, ma una temibile rosolia con macchie rosse dappertutto sul corpo.  Era in convalescenza e lo lasciavano giocare, seduto sulla sabbia con un cappello di paglia, di  tesa larga per non scottarsi, perché scomparisse quella pallidezza così trasparente che aveva perfino cancellato le lentiggini che aveva sul naso.
Dopo i giochi, ci piaceva saltare dentro l’acqua del canale d’irrigazione per fare il bagno nel “acqua nuova”, arrivata dopo le piogge dalla cordigliera Andina.  Uscivamo puliti e contenti, meno Fito che rimaneva sempre indolenzito perché sua madre lo strofinava con la spazzola da lavare i panni e molto sapone, per farlo diventare più bianco, ma senza grandi risultati.
Quel pomeriggio ci preparavamo per entrare in acqua, quando Claudio, arrampicato con la testa in giù sopra di uno degli ulivi, con la sua chioma rossa che pendeva spettinata, diede il grido d’allarme.
Guardammo tutti verso il deserto costiero, e lontano, sotto il soffio del vento “paraca”, osservammo avanzare barcollando in lontananza un’ombra ondeggiante che sembrava dissolversi in mezzo ai miraggi.  Era verità o magia?  Era verità: un personaggio si avvicinava alla fattoria.  Non arrivava a cavallo, né col autobus, né col camion.  Cercava di avanzare trascinando i piedi ed inciampando.
Che cade! Che cade! E’ caduto! - strillò Claudio, mentre scendeva rapidamente dall’albero.  Non potevamo più osservare l’ombra avanzare sulla sabbia.  Era svanita fra  le dune prima di arrivare alla casa della nonna.
Ci lanciammo di corsa verso dove lo avevamo scorto per l’ultima volta, per curiosità, e per soccorrerlo se fosse stato necessario.
- E’ verde! - esclamai con meraviglia avvicinandomi.
- Ed è malato! - affermò Pepa, tremando.
- E’ tutto bagnato! - osservò Mango, guardandoci con occhi furbi.
L’ ultimo arrivato fu Victor.  Vedendo la sagoma sdraiata per terra con la faccia verde e grossa, coperta di macchie rosse, manifestò con voce timorosa:
- Ha il rosolio, come me.
Effettivamente, quello strano personaggio aveva un colore poco comune.  Ci  rendemmo conto, poi, che dalla sua schiena cadeva una sostanza gialla che non sapevamo se era sangue chiaro o qualche altro liquido corporeo, anche se non aveva odore di pipì ma di muschio.
Decisi ad aiutarlo, lo trascinammo per un po’ lungo la sabbia, giacche da sempre la casa della nonna accoglieva i forestieri, stranieri, esteri o esotici, oppure “dafforani” come chiamava Ignazia quelli che arrivavano “da fora”.  Era abitudine ricevere nella fattoria gente d’altre razze, culture e credenze perché la nonna ripeteva: “Non bisogna trattare male i visitatori di buona volontà, soltanto perché arrivano da lontano”.
Per questa ragione, un individuo colla pelle verde e le macchie rosse sul corpo, che versava liquido giallo dalla schiena, non ci stupì più di tanto in quel momento, anche se ora che lo ricordo, dopo tanti anni, mi sorprendo della nostra incredibile ingenuità.
Il forestiero portava una tuta aderente e dalla cintura pendevano diversi apparecchi che si accendevano e spegnevano, emettendo suoni intermittenti e rumori bisbiglianti.  Lo circondammo sorpresi, ed in un primo momento non avevamo il coraggio di toccarlo per portarlo con noi. Vicino al corpo svenuto, risplendeva sotto il sole un casco argentato con disegni geometrici, inconsueto.  Claudio, il cugino irrispettoso come sempre, cercò di metterlo sulla propria testa, ma lo tolse in fretta e lo gettò lontano.
- Ha musica e filmini dentro! - balbettò spaventato.
Quello sì che era molto insolito, veramente.  Ancora più del colore della pelle dello sconosciuto, perché le uniche pellicole che vedevamo nel cinema del paese erano quelle di Tarzan, e non avevamo mai saputo che dentro un casco, anche se era brillante ed argentato, potesse apparire Tarzan.
- E non è Tarzan! - s’affrettò ad affermare vedendo le nostre facce perplesse e diffidenti.
Afferrai il casco senza paura e lo misi su fino a che mi coprì completamente la testa. Attraverso la lamina trasparente davanti agli occhi, a parte il paesaggio intorno, vidi un personaggio con gli occhi sporgenti e la bocca grande che parlava in una lingua sconosciuta.  Mi dava delle istruzioni.  Cercai di capire quello che voleva comunicarmi, ma non comprendevo.  Ebbi la sensazione di alzarmi in aria per qualche metro, ma quando mi tolsi l’artefatto dalla testa, sbalordita, mi trovai ancora con i piedi per terra.  Meno male che non mi sono fatta male, pensai, perché la nonna mi avrebbe sgridato per l’imprudenza.
- Mi avete visto volare?- domandai ai ragazzi.
- Nessuno ti ha visto volare, - rispose Mango che non credeva in fattucchiere. - Sei stata qui accanto, tutto il tempo.
-  Però, al casco le sono cresciute le antenne!
Pepa si avvicinò e carezzò il copricapo che s’illuminava da solo, con luci intermittenti.  Le due antenne si erano ritirate ai lati, e non si vedevano più.  Come mai io avevo visto il paesaggio dall’alto senza aver mosso i piedi da terra?  Chi era quel personaggio che mi parlava dentro la testa? Era quello un casco con pretensioni arrampicatrici, un ascensore, oppure una macchina volante, mobile, da corsa?
 Decisi che non volevo sondare subito il mistero perché erano già sufficientemente incomprensibili i fatti occorsi quel pomeriggio.
- Sarà questo il forestiero che la nonna aspetta da sempre, quando scruta l’orizzonte sopra le dune? - chiese Claudio indicando l’individuo malconcio, mentre lo tirava dalle braccia e noi dai piedi.
Nessuno rispose, stanchi com’eravamo per lo sforzo, e ammutoliti per il dubbio e l’incertezza.  Allora corsi fino alla cucina della nonna, chiamando Ignazia.
Affannata, la vecchia cuoca venne fuori asciugandosi le mani con uno straccio.
-  Che cosa porti fra le mani, Rosa? - mi chiese.
- E’ un casco del forestiero che è svenuto sulla sabbia, - risposi.  - Dentro porta dei film e ti fa volare.
- Quante stupidaggini racconti! - disse, movendo la testa rassegnata, la buona donna.  Era abituata ai nostri voli immaginari e a tutti i forestieri che s’accostavano alla tavola in casa della nonna.  Poi, osservò con trepidazione il nuovo personaggio. Infatti, i ragazzi s’avvicinavano alla cucina che mandava odori forti e piccanti, portando il foraneo svenuto.
- Chi è quello che portate qui, birbanti? Dovete stare attenti...- strillò la donna di colore, chiocciando come una gallina vecchia.
- Abbiamo trovato questo “dafforano” sulle dune, - interruppe Fito.
- Sembra morto, - bisbigliò Claudio.
- Penso che ha preso il rosolio, come me, - disse Victor indicando le macchie rosse.
Ignazia s’avvicinò al corpo steso sulla sabbia.  Era un essere piccolo e storto come un carrubo vecchio. Lo prese con le sue braccia forti e lo portò fino alla cucina.  Col suo spirito nobile, generoso e osservatore, si rese conto subito della situazione, ed esclamò:
- Un altro che ci cade dal cielo! - Esaminò il corpo con curiosità. - E’ ferito.  Mi pare che abbia un taglio di machete dietro, sulla schiena.
Arrivò la nonna preoccupata in cucina, sentendo il trambusto.  Fece portare senza indugio il forestiero ferito in uno dei letti che manteneva per ospiti inaspettati, che trattava sempre bene perché non si stancava di ripetere:
-  Che siano forestiere arrivati da lontano, non significa che sono cittadini di seconda categoria.
Così lo abbiamo capito fin da piccoli.
Pulì e curò la ferita con attenzione, in quella pelle verde ed alquanto squamosa che faceva sembrare il nuovo venuto o nuovo svenuto, più a un’ iguana che a una persona.  Poi coprì e fasciò la lesione della schiena con lunghi stracci di stoffa che strappò da un lenzuolo pulito.
Quando finalmente lo lasciò a riposare, vedendo che respirava un po’ meglio, la nonna fece l’interrogatorio a tutti.  Raccontammo subito del casco che faceva volare, con cinema incorporato, e lo sequestrò immediatamente. Lo chiuse sotto chiave nel baule che teneva ai piedi del letto, lo stesso che conservava, come ci raccontava, le sue lenzuola ricamate da sposa.
- Questo non è un giocattolo, - pronunciò con saggezza. - Possiamo imparare in questa vita con l’esperienza degli altri, anche se arrivano da un luogo più in là delle stelle. Ma non dobbiamo mancare di rispetto a loro ne ai loro oggetti.
Rimanemmo tristi ed insoddisfatti perché tutti volevamo metterci il casco sulla testa, ed io, più di tutti, volevo volare ancora, anche se fosse soltanto con l’immaginazione, e vedere come funzionavano le piccole antenne.
Nella fattoria cominciarono le inchieste per scoprire chi erano quelle canaglie che avevano bistrattato il forestiero, lasciandolo malconcio col machete.  Lui che era atterrato sulle dune, proveniente da un mondo lontano, senza aggressività, violenza o motivo di combattere secondo le supposizioni della nonna.
La figlia maggiore della cuoca Ignazia, e madre di Fito, sapeva che un gruppo di malviventi stava rendendo insicura la regione, intossicandosi con intrugli di sughi di cactus ed altre bevande allucinogene.  Sospettò che fossero loro i colpevoli.  Lei conosceva bene molti uomini della zona.  Viveva cercando di scoprire chi l’aveva resa madre e tutti gli anni, durante le feste del Carnevale, cercava di smascherare i pagliacci chiedendo loro  a bruciapelo:
-  Sei tu il padre di Fito?
Cosi, quando seppe dove stavano allora i banditi, lavoratori temporanei nelle campagne, mosse cielo e terra per trovarli e portarli alla giustizia, ma successe quello che accadeva sempre con le altre sue ricerche.  Furono vane e infruttuose, e l’unica risposta che sentì intorno furono delle risate.
- La nostra gente dovrebbe accogliere tutti con rispetto, soprattutto se arrivano con buone intenzioni, - si lamentò la nonna quando seppe delle vane ricerche della madre di Fito.  Lei aveva capito già dell’ aggressività dei raccoglitori stagionali di cotone che contrattava per i lavori durante l’estate.
Pochi giorni dopo averlo alimentato con brodo di gallina e uova di quaglia, più alcune infusioni d’erbe, e di fregare il suo pellame coriaceo con tintura di timo, melissa e tamarindo, il paziente incominciò a ricuperarsi.  La nostra curiosità ci portava a sbirciare dentro la stanza per ospiti, ma la scura madre di Fito era sempre di guardia sulla porta, lavorando a maglia, perché nessuno lo disturbasse.
 Un pomeriggio sull’ora della siesta, trovammo la chiave insolitamente inserita nella chiusura del baule della nonna, ed approfittammo del sonno della veneranda anziana per impossessarci del copricapo magico.  Lo mettemmo sulla testa a Victor, perché era stato ammalato, quindi aveva più diritto di noi che eravamo sani.  Subito, dai lati uscirono due antenne, ma lui, tremando, si tolse il casco dalla testa e gridò:
- C’e un’anatra morta sul tetto!
- Un’anatra morta sul tetto?
- Sai, Rosa?  Deve essere la stessa che Claudio prese dalle zampe e lanciò al belvedere, quando la nonna non lo vedeva, - svelò Fito.
- Stai  zitto, spione!
Allora, io presi il casco, lo mise in testa ed incominciai a volare anch’io.  Mi alzai sul gelsomino che profumava le ore della siesta, su, sopra l’eucalipto, arrivai al belvedere sul tetto, con la sua veranda di legno danneggiato dalle crepe ed osservai così l’anatra defunta che la rabbia ed il malumore di Claudio aveva fatto atterrare sul tetto della dimora, il giorno prima, dopo la sgridata della nonna.  Continuai a sollevarmi ed attraversai la nebbia.  Il cuore mi batteva dalla paura fino a che salì sopra una nuvola e potei vedere laggiù, fra le dune e molto lontano dalla casona e dal villaggio, dentro un fossato sabbioso, ben nascosto dalla nostra dimora, un enorme apparecchio volante, senza ali, come un disco argentato e splendente.
Cercai di togliermi il casco, tirando dalle antenne.  Immediatamente, uscirono dai lati del copricapo delle cinghie e mi legarono la parte superiore del corpo, come serpenti, mentre si ascoltavano le grida dei ragazzi e le parole incomprensibili del cicerone dentro il casco.
- Attenta che alzi il volo veramente! - gridavano i cugini.
Presi il casco con le mani e cercai di togliermelo.  Si snodarono le cinghie e cascai per terra.  Ero veramente levitata qualche metro dal suolo!
- Quasi te ne vai volando in aria! - assicurò Pepa spaventata.
Capì, allora, che potevamo volare fisicamente col casco in testa, e non soltanto per vedere il mondo dal tetto della casa.  Questo era un fatto che ci metteva un po’ di paura.  Gli altri ragazzi si misero il casco per provarlo, ma non tirarono delle antenne per non staccare i piedi dal suolo.  Noi vigilavamo attentamente giacche non volevamo perdere nessuno dei compagni di gioco, parenti e no perchè si mettesse a volare e si allontanasse per aria, soprattutto per timore al castigo della nonna.  Tutti rimasero meravigliati da quel che vedevano dall’alto, senza muovere i piedi da terra.  Decidemmo riportare l’oggetto magico nel cassone.  Probabilmente il forestiero avrebbe avuto bisogno del casco volante per tornare al luogo da dove era venuto.
Decidemmo di mantenere il segreto su quello che avevamo visto e provato,  sgomenti da quel mistero inesplicabile. Se lo avesse saputo, la nonna ci avrebbe castigato almeno per un mese senza mangiare dolci.
- Cielo santo! - ascoltammo il grido dell’anziana signora, quando entrò una mattina alla stanza per ospiti.
- Ave Maria! - recitò Ignazia dietro di lei.
Non ci raccontò mai la nonna cosa parlò con il forestiero, né in che lingua, ma indovinammo che quei due si capirono.  Quella mattina prese il copricapo dal baule e ci riunì nel patio, sotto il gelsomino.
Ci istruì. - Il forestiero è sano, adesso, vuole tornare al suo mondo e noi dobbiamo facilitargli il compito, e non turbare i suoi desideri per curiosità, invidia o malvagità. 
Quel giorno assistemmo a dei fatti inusitati, in piedi, vicino agli zii, che portavano i loro stivali lucidi come i giorni festivi, al cinese del negozio, alla nera Ignazia, ai raccoglitori di cotone di pelle color caffè, alle zie ed alla nonna dai capelli bianchi e pelle lentigginosa che diventava rossa appena prendeva un po’ di sole.
Apparve il forestiero vestito con un pantalone di cotone grosso, appena stirato, ed una camicia a quadri.  Capimmo che la nonna aveva deciso di vestire il visitante decentemente per il suo viaggio, e fu allora che vedemmo, sorpresi e meravigliati, che aveva scucito il pantalone dal di dietro, per lasciar uscire una coda verde e squamosa che il visitante trascinava dietro di sé.
- Gli è cresciuta una coda da lucertola! - ripeteva Ignazia, e la vedemmo fare il segno della croce mormorando preghiere.
- Probabilmente gli tagliarono la coda col machete e si è rigenerata come quello di una lucertola! - bisbigliavano gli zii.
Non traballava più né spandeva liquidi gialli.  Il forestiero andò sul belvedere della dimora, mentre la coda balzava dietro sugli scalini consumati. Alzò le braccia come salutando e fece una smorfia che poteva sembrare un sorriso.  Poi, si mise il casco sulla testa.  Immediatamente apparvero le antenne lanciando dei raggi, e le allungò con le sue dita curve.  Le cinghie le legarono il corpo, sopra la camicia a quadri e, silenziosamente com’era arrivato, sparì nella nebbia pomeridiana.
I lavoratori tornarono alle loro faccende, domandandosi se avevano sognato o se era un nuovo trucco del circo che arrivava in paese durante le feste.  Gli zii alzarono le spalle e montarono a cavallo verso le campagne, abituati com’erano ai visitatori esotici e saltimbanchi che s’avvicinavano a casa della nonna.
Noi, sospettando i fatti posteriori, dirigemmo gli occhi verso l’orizzonte e poco dopo vedemmo un disco argentato alzarsi verticalmente fra la nebbia e la sabbia, staccarsi dal suolo ed avviarsi velocemente verso le stelle.
Quel fatto lasciò una traccia durevole nelle nostre menti. L’esperienza di intravedere per momenti un altro mondo, nuovo, magico, inspiegabile, riempì la nostra gioventù di sogni sorprendenti ed il nostro futuro d’ospitali accoglienze, inaspettate ed addottrinanti.
Attraverso gli anni, i visitanti sono stati ancora e sempre ben accolti in questo luogo del mondo.  Posso assicurare che fino ad oggi, in casa della nonna, anche se lei non ci accompagna più, sul tavolo domenicale aspetta sempre un piatto per il forestiero.
(da: Racconti forestieri in altri spazi)